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Dopo la condanna a soli 12 anni per il rifugiato nigeriano che nel 2017 ha ucciso senza un perché l’operaio di Settimo Torinese, nei giorni scorsi altro “schiaffo” per i suoi cari

Li ha chiamati personalmente anche un funzionario del Ministero dell’Interno per scusarsi della totale inadeguatezza dell’indennizzo: cinquantamila euro da suddividere in quattro, moglie e tre figli. Oggi, Otto Marzo 2022, Festa della Donna, non c’è molto da festeggiare per Carmela Caruso, 52 anni, la vedova di Maurizio Gugliotta, l’operaio di Settimo Torinese accoltellato a morte ad appena 51 anni da un profugo nigeriano oggi trentunenne, Khalid De Greata, al mercato del libero scambio di Torino il 15 ottobre 2017: l’omicidio del Suk, com’è stato subito battezzato.

Non bastasse la perdita del marito in modo cruento e senza un perché, in questi quasi cinque anni Carmela Caruso, che è stata sostenuta nella sua battaglia da Studio3A-Valore S.p.A., società specializzata a livello nazionale nel risarcimento danni e nella tutela dei diritti dei cittadini, ha dovuto ingoiare tanti altri bocconi amari, a cominciare dalla condanna per nulla commisurata alla gravità del crimine commesso inflitta dall’assassino dal giudice del Tribunale di Torino, dott. Stefano Vitelli, il 20 marzo 2019: 12 anni. Una pena troppo lieve su cui ha pesato la seminfermità mentale riconosciuta all’imputato da due perizie psichiatriche e sulla base della quale è stata esclusa l’aggravante dei futili motivi: l’improvvisa aggressione coltello in pugno da parte del rifugiato nei confronti di Gugliotta e dell’amico che si trovava con lui, e di cui neanche il superstite ha saputo fornire una spiegazione (il killer ha dichiarato di essersi sentito “offeso”), è stata in pratica attribuita alla patologia paranoide da cui sarebbe affetto De Greata. 

Il giudice ha applicato il massimo della pena prevista per l’omicidio non aggravato, 24 anni, sottratto il massimo previsto per la seminfermità, un terzo, cioè otto anni, ne ha aggiunti due per il tentato omicidio dell’amico, arrivando a 18, e ridotto tutto di un terzo per lo sconto di pena determinato dalla scelta del rito abbreviato: risultato, 12 anni. Un verdetto che aveva destato l’indignazione in aula dei familiari di Gugliotta, i quali si aspettavano ben di più, e a poco è valso a lenire il loro dolore il fatto che, finita di scontare la sua condanna, l’imputato sarà sottoposto ad altri tre anni di misura di sicurezza in una struttura psichiatrica, da cui potrà uscire solo se e quando non sarà più ritenuto socialmente pericoloso. 

I congiunti della vittima e Studio3A confidavano nel ricorso per Cassazione proposto dal Pubblico Ministero della Procura torinese titolare del procedimento penale, il dott. Gianfranco Colace, che aveva contestato diversi vizi della sentenza di primo grado, in particolare l’esclusione dell’aggravante dei futili motivi, chiedendo di annullarla con rinvio al Gup di Torino per un nuovo giudizio, ma la Suprema Corte, con sentenza del 13 dicembre 2019, lo ha rigettato, confermando i 12 anni e mettendo la parola fine sulla vicenda.  

Ma anche sotto l’aspetto risarcitorio i Gugliotta hanno dovuto subire tante amarezze, e non si tratta di un elemento secondario perché la famiglia con Maurizio ha perso anche il suo principale sostegno economico: all’epoca solo il figlio maggiore, Daniele, che oggi ha trent’anni, aveva un lavoro peraltro precario, i suoi fratelli, che allora avevano 20 e 18 anni, studiavano ancora, e la signora Carmela era casalinga. La provvisionale di 150mila euro stabilita dal giudice in favore della moglie e di ciascuno dei tre figli come risarcimento ha suonato come un’ulteriore beffa, perché l’omicida era ovviamente nulla tenente e non avrebbe potuto rifondere di tasca sua neanche un euro. 

Tramite Studio3A, è stata quindi presentata la domanda per accedere almeno al fondo per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso e dei reati intenzionali violenti previsto dallo Stato con la legge 122 del 7 luglio 2016: il minimo, considerate le pesanti responsabilità indirette del Governo italiano, che ha prima accolto e poi lasciato libero di scorrazzare sul territorio nazionale un soggetto così pericoloso. Infatti, con delibera del 24 novembre 2021, il Ministero dell’Interno ha accolto le domande e nei giorni scorsi – dopo quattro anni e mezzo – sono stati liquidati gli assegni. Peccato che la cifra stanziata dal fondo sia quasi offensiva, 50 mila euro in tutto, 12.500 euro per ciascuno dei familiari. Niente. 

Se non fosse stato per i miei figli, per i quali questo danaro è pur sempre un piccolo aiuto, non avrei neppure accettato quest’elemosina, da cui dovremo peraltro detrarre anche le spese: è un indennizzo completamente ingiusto, solo un lavarsi la coscienza da parte dello Stato. Mi vergogno anch’io come il funzionario del Ministero. Dopo il danno di una sentenza assurda, anche la beffa – commenta amaro la signora Caruso – Sono totalmente delusa dalla giustizia, non l’abbiamo proprio ricevuta, non c’è stata alcuna giustizia per noi, non ho più alcuna fiducia nelle leggi italiane e nello Stato, che ci ha abbandonati, lasciandoci in queste condizioni. Oggi i miei figli non hanno più un padre e io non ho più in marito e ho dovuto cercare un lavoro, come collaboratrice scolastica, per tirare avanti”. 

Caso seguito da:

Dott. Giancarlo Bertolone

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