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Il diritto del paziente di essere informato e di poter quindi decidere delle proprie cure, di “autodeterminarsi”, non può essere leso neanche laddove i medici debbano assumere (o sostengano di aver dovuto farlo) una scelta immediata in ragione delle sue gravi condizioni.

Con la sentenza n. 27109/21 depositata il 7 ottobre 2021 la Corte di Cassazione ribadisce con forza l’assoluta valenza del cosiddetto “consenso informato”.

 

Il mancato consenso informato di una paziente all’intervento “fatale”

I familiari di una donna deceduta nel 2005 durante un intervento di angioplastica coronarica all’ospedale “Maria Paternò Arezzo” di Ragusa (in foto), dove in realtà si era ricoverata per effettuare una coronografia, avevano citato in causa la locale azienda sanitaria avanti il tribunale cittadino chiedendo il risarcimento dei danni patiti per la morte della loro cara. I giudici avevano accolto solo parzialmente la domanda e nel 2018 la Corte d’Appello di Catania, presso la quale i congiunti della vittima avevano appellato la decisione di prime cure, avevano respinto il gravame, confermando dunque la sentenza di primo grado.

Di qui dunque l’ulteriore ricorso in Cassazione, con cui i familiari della donna si dolevano del fatto che la corte territoriale avesse posto alla base della propria decisione la consulenza tecnica svolta in sede penale, la quale, nell’escludere la responsabilità penale dei sanitari, aveva accertato che la defunta era portatrice di una grave forma di cardiopatia e che l’intervento di angioplastica era stato eseguito correttamente. Secondo i ricorrenti i giudici non avevano considerato che, in caso di “atto medico non assentito”, com’era successo nello specifico, “il medico e la struttura sanitaria sono tenuti a rispondere dell’esito infausto dell’atto terapeutico pur se ad essi non imputabile a titolo di responsabilità medica propriamente intesa, giacché è sul medico e sulla struttura sanitaria in cui operi che viene a gravare il rischio delle complicanze a lui non imputabili, ma prevedibili, dell’atto medico non assentito” per citare uno stralcio del ricorso.

A quanto lamentato dai congiunti della paziente, se i sanitari dell’ospedale di Ragusa le avessero rappresentato tutti i rischi connessi all’intervento poi praticato, nonché la possibilità di eseguirlo presso altre strutture sanitarie specializzate nel settore e/o comunque dotate di un’unità di cardiochirurgia, è plausibile sostenere, anche in via presuntiva, che la signora, ferma restando la possibilità di ricorrere a terapie alternative, avrebbe scelto di eseguire altrove l’intervento medico.

Per la Suprema Corte il motivo di doglianza è fondato. “L’acquisizione da parte del medico del consenso informato costituisce prestazione altra e diversa da quella dell’intervento medico richiestogli, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria in caso di mancata prestazione da parte del paziente” rammenta innanzitutto la Cassazione, ribandendo per l’ennesima volta che si tratta di due diritti distinti.

 

Il diritto all’autodeterminazione e alla salute

Il consenso informato attiene al diritto fondamentale della persona all’espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, e quindi alla libera e consapevole autodeterminazione del paziente, atteso che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge (anche quest’ultima non potendo in ogni caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana). Il trattamento medico terapeutico ha viceversa riguardo alla tutela del (diverso) diritto fondamentale alla salute.

L’autonoma rilevanza della condotta di adempimento della dovuta prestazione medica ne impone pertanto l’autonoma valutazione rispetto alla vicenda dell’acquisizione del consenso informato, dovendo al riguardo invero accertarsi se le conseguenze dannose successivamente verificatesi siano, avuto riguardo al criterio del più probabile che non, da considerarsi ad essa causalmente astrette. Con l’ulteriore avvertenza che, trattandosi di condotta attiva, e non già passiva, non vi è nella specie luogo a giudizio controfattuale.

In mancanza di consenso informato, dunque, l’intervento del medico, proseguono i giudici del Palazzaccio, “è (al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità) sicuramente illecito, anche quando sia nell’interesse del paziente, dal momento che l’obbligo del consenso informato costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario”.

 

Come deve essere l’informazione

Com’è noto, si tratta di un obbligo che attiene all’informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente viene sottoposto, al fine di porlo in condizione di consentirvi in modo consapevole. Infatti, gli Ermellini ricordano anche che l’informazione deve in particolare attenere al possibile verificarsi, in conseguenza dell’esecuzione del trattamento, dei rischi di un esito negativo dell’intervento e di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente, ma anche di un possibile esito di mera “inalterazione” delle medesime (e cioè del mancato miglioramento costituente oggetto della prestazione cui il medico-specialista è tenuto, “e che il paziente può legittimamente attendersi quale normale esito della diligente esecuzione della convenuta prestazione professionale”), e pertanto della relativa sostanziale inutilità, con tutte le conseguenze di carattere fisico e psicologico (spese, sofferenze patite, conseguenze psicologiche dovute alla persistenza della patologia e alla prospettiva di subire una nuova operazione, ecc. ) che ne derivano.

Insomma, ribadisce con forza la Suprema Corte, la struttura e il medico hanno dunque “il dovere di informare il paziente in ordine alla natura dell’intervento, a suoi rischi, alla portata dei possibili e probabili risultati conseguibili nonché delle implicazioni verificabili”, esprimendosi anche in termini adatti al livello culturale del paziente interlocutore, adottando un linguaggio a lui comprensibile, secondo il relativo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone.

Il consenso informato, specifica ancora a Cassazione, va acquisito anche qualora la probabilità di verificazione dell’evento sia così scarsa da essere prossima al fortuito o, al contrario, sia così alta da renderne certo il suo accadimento, “poiché la valutazione dei rischi appartiene al solo titolare del diritto esposto e il professionista o la struttura sanitaria non possono omettere di fornirgli tutte le dovute informazioni

Gli Ermellini citano poi l’art. 2, secondo comma della Costituzione (in base al quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge), l’art. 13 Cost. (che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica) e l’art. 33 L. n. 833 del 1978 ( che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p. ), ai sensi dei quali l’obbligo di acquisire il consenso informato è a carico della struttura e del sanitario.

 

Il consenso informato non può mai essere “presunto” o “tacito”

Il consenso libero e informato, puntualizza ulteriormente la Cassazione, “che è volto a garantire la libertà di autodeterminazione terapeutica dell’individuo, e costituisce un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi consentendogli di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, o anche di rifiutare (in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale) la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, salvo che ricorra uno stato di necessità, non può mai essere presunto o tacito ma deve essere sempre espressamente fornito, dopo avere ricevuto un’adeguata informazione, anch’essa esplicita, laddove presuntiva può essere invece la prova che un consenso informato sia stato dato effettivamente ed in modo esplicito, ed il relativo onere ricade sulla struttura e sul medico”.

Grava su medico e struttura l’onere di provare che non vi è stato inadempimento

In altre parole, a fronte dell’allegazione di inadempimento da parte del paziente, è onere della struttura e del medico provare l’adempimento dell’obbligazione di fornirgli un’informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze, “senza che sia dato presumere il rilascio del consenso informato sulla base delle qualità personali del paziente, potendo esse incidere unicamente sulle modalità dell’informazione”, la quale, come detto, deve sostanziarsi in “spiegazioni dettagliate ed adeguate al suo livello culturale, con l’adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado delle conoscenze specifiche di cui dispone”.

La struttura e il medico vengano infatti meno all’obbligo di fornire un valido ed esaustivo consenso informato al paziente non solo “quando omettono del tutto di riferirgli della natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo”, ma anche quando “acquisiscano con modalità improprie il consenso dal paziente”: ad esempio, mediante la sottoposizione alla sottoscrizione del paziente di un modulo del tutto generico, oppure solo oralmente.

I giudici del Palazzaccio precisano altresì che la violazione del diritto al consenso informato, che costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario, può “riverberare anche sulla violazione del diritto alla salute del paziente allorquando l’atto terapeutico necessario e pur correttamente eseguito secundum legem artis cui siano conseguiti effetti pregiudizievoli non sia stato invero preceduto dalla preventiva, espressa indicazione al paziente dei relativi possibili effetti pregiudizievoli. E il risarcimento del danno alla salute per il verificarsi di tali conseguenze può essere riconosciuto “ove risulti allegato e provato – anche in via presuntiva – dal paziente che, se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi a detto intervento, ovvero avrebbe vissuto il periodo successivo ad esso con migliore e più serena predisposizione ad accettarne le eventuali conseguenze e sofferenze, oppure, ancora, avrebbe deciso di farsi operare presso altra idonea struttura”.

 

Da plurimi elementi si poteva dedurre che, se informata, la vittima si sarebbe operata altrove

Venendo al caso di specie, secondo la Cassazione la Corte d’Appello ha disatteso questi principi. Appena pochi giorni prima del ricovero all’ospedale di Ragusa, ricostruiscono la vicenda gli Ermellini, la vittima dall’8 al 13 aprile 2005 era stata ricoverata al nosocomio di Modica per “cardiopatia ischemica in angiosclerotico iperteso-diabete mellito scompensato-insufficienza renale cronica”, e all’atto di dimissione i sanitari avevano già proceduto a fissare per il 15 maggio degli esami di emodinamica presso l’ospedale Arezzo di Ragusa. Il 16 aprile tuttavia la paziente si era ricoverata con urgenza presso quest’ultimo presidio ospedaliero perché colta da “angina pectoris instabile” avendo avvertito durante la notte dolore precordiale e dispnea. Ma la data più importante è quella del 18 aprile, quella nella quale la paziente, com’era incontestato, era stata sottoposta a angioplastica coronarica presso l’Ospedale di Ragusa, ossia due giorni dopo essere stata ricoverata, benché in tale struttura non vi fosse un reparto di cardiochirurgia e pur essendo stata la vittima in precedenza sottoposta a radioterapia per malattia oncologica.

Non ravvisando, nonostante questi elementi, “alcun profilo di responsabilità medica dei sanitari che hanno eseguito l’intervento di angioplastica coronarica sulla paziente, essendo certo che detto intervento è stato eseguito correttamente, in conformità alle regole della scienza medica”, la Corte di merito, confermando la pronunzia del giudice di prime cure di rigetto della domanda di risarcimento del danno da morte, aveva affermato che “un conto è la morte come conseguenza della condotta colposa dei medici nell’esecuzione dell’intervento – che fonda il titolo per il risarcimento del danno non patrimoniale per la morte del familiare – altro, e tutt’affatto diverso, conto è la violazione del consenso informato”, sottolineando che nella specie “non è la mancanza del consenso informato la causa della morte, che sarebbe avvenuta anche in caso di consenso”.

La corte di merito ha ravvisato la “gravità della condizione di salute della paziente” e “la prospettiva realistica di un evento infausto in caso di non tempestiva sottoposizione al suddetto intervento” come elementi che deponevano per “l’alta probabilità che la medesima vi avrebbe acconsentito”, e al tempo stesso per la “necessità ed improcrastinabilità dell’intervento”, con conseguente esclusione addirittura della necessità di acquisire il consenso della paziente. Questa “necessità ed improcrastinabilità dell’intervento”, fanno però notare gli Ermellini, risulta smentita per l’appunto dalla circostanza che l’intervento di angioplastica coronarica era stato nel caso effettuato ben due giorni dopo il ricovero della paziente .

Ancora più grave, emerge chiaro che la corte di merito abbia in realtà ritenuto essere stato il consenso all’intervento de quo dalla defunta presuntivamente e tacitamente prestato, pur a fronte di una pluralità di elementi «gravi, precisi e concordanti deponenti, per l’inferenza “anche in via presuntiva” che “qualora la paziente fosse stata correttamente informata avrebbe rifiutato sicuramente l’intervento, quantomeno nella struttura sanitaria di Ragusa”, e che “ferma restando la possibilità di ricorrere a terapie alternative”, la medesima “avrebbe scelto di eseguire altrove l’intervento medico”.

Né può al riguardo sottacersi – va a concludere la Cassazione – come la motivazione dell’impugnata sentenza si appalesi invero del tutto apodittica ed intrinsecamente illogica nella parte in cui risulta affermato che, ove effettivamente informata della situazione organizzativa della struttura nonché della “realistica prospettiva” dell’esito infausto dell’operazione, la paziente avrebbe scelto di farsi operare lo stesso presso l’Ospedale di Ragusa. Emerge con tutta evidenza come la corte di merito pretenda di trarre dalla gravità delle condizioni di salute della paziente la conseguenza che, in luogo di rinunziare a farsi ivi operare optando per altra maggiormente idonea struttura dotata in particolare (quantomeno) di reparto di cardiochirurgia, la medesima si sarebbe invero addirittura indotta ad accelerare la realizzazione di quella “realistica prospettiva” poi inesorabilmente verificatasi”.

In conclusione, dunque, la sentenza impegnata è stata cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Catania, che in diversa composizione dovrà procedere a un nuovo esame della causa, facendo applicazione dei principi ribaditi dalla Suprema Corte.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Malasanità

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