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Il datore di lavoro non può scaricare la responsabilità di un infortunio accaduto nella sua azienda su una negligenza o una disattenzione commessa da un suo lavoratore o da un “terzo” laddove abbia palesemente omesso di valutare i prevedibili rischi insiti in quel tipo di attività.

A ribadire per l’ennesima volta gli stringenti obblighi in materia antinfortunistica in capo agli imprenditori la Corte di Cassazione, con l’interessante ed eloquente sentenza n. 45596/21 depositata il 13 dicembre 2021.

Condannato un datore di lavoro, responsabile di non aver valutato il rischio

Un magazziniere nel gennaio del 2013 aveva subito un grave infortunio sul lavoro: l’operaio si trovava a svolgere attività di carico con un carrello elevatore di un camion quando il conducente del mezzo pesante lo aveva inavvertitamente spostato in avanti, determinando la conseguente caduta del carrello condotto dalla vittima, che aveva inutilmente tentato di aggrapparsi al telaio posto a protezione del conducente, e che aveva riportato una frattura pluriframmentaria scomposta della mano sinistra, da cui gli era derivata un’inabilità al lavoro di oltre quattro mesi.

Il Tribunale di Bologna nel 2017 aveva condannato, ritenendoli entrambi responsabili, sia il datore di lavoro sia il camionista, mentre la Corte d’Appello felsinea, con sentenza del 2020, in parziale riforma della decisione di primo grado, aveva dichiarato il non doversi procedere nei confronti dell’autotrasportatore per difetto di condizione di procedibilità, e per l’effetto aveva anche revocato le statuizioni civili presenti in sentenza, confermando invece la pronuncia di condanna ad un mese di reclusione emessa nei confronti del titolare dell’impresa per la quale lavorava l’infortunato, per il reato di lesioni compose gravi con l’aggravante di essere stato commesso in violazione delle norme antinfortunisiche.

Più precisamente gli si imputava colpa generica e specifica ex art. 28, comma 2, d.lgs. n. 81 del 2008, avendo omesso di predisporre, con riguardo alle operazioni di carico e scarico della merce dalle banchine ai cassoni dei camion, una chiara e specifica procedura di valutazione di rischio di ribaltamento e caduta del carrello con operatore a bordo nella fasi di carico e scarico, impedendo in tal modo al suo dipendente di poter lavorare in condizioni di sicurezza.

 

L’imputato ricorre per Cassazione: mancato a suo dire il giudizio contrattuale

Il legale rappresentante dell’azienda ha quindi proposto ricorso per Cassazione contro questa sentenza sulla scorta di tre motivi. In primo luogo, secondo l’imputato anche mettendo in atto le prescrizioni e le specifiche cautele indicate dagli ispettori dell’Ausl (l’apposizione di un cartello sul parabrezza del camion, il posizionamento di cunei o fermi davanti alle ruote, il ritiro delle chiavi dell’automezzo) nelle procedure da seguire nelle operazioni di carico e scarico delle merci su autocarri eseguite mediante carrello elevatore, l’evento non si sarebbe comunque potuto evitare: sarebbe quindi mancato da parte dei giudici territoriali l’esperimento di un valido giudizio controfattuale.

E il comportamento del camionista sarebbe stato “aberrante” e imprevedibile

Il ricorrente, poi, ha lamentato il fatto che la Corte d’Appello non avesse ritenuto “aberrante” il comportamento dell’autotrasportare, e come tale idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra la violazione del dovere di diligenza e la verificazione dell’evento.

Il giudice di secondo grado, in altre parole, secondo la tesi difensiva, avrebbe errato nel non ritenere l’evento come la conseguenza di un’aberrante, in quanto imprevedibile ed eccezionale, condotta tenuta dall’autista del campo il quale, del tutto distrattamente, aveva deciso di muovere il suo mezzo, determinando la caduta del carrello elevatore e la conseguente frattura della mano del magazziniere.

Contestata anche la mancata applicazione della particolare tenuità del fatto

Da ultimo, il datore di lavoro ha eccepito anche sul diniego dell’applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto. A suo dire, la Corte di merito avrebbe escluso l’applicabilità dell’istituto ex art. 131-bis cod. pen, ritenendo che i comportamenti intervenuti solo successivamente al reato, ossia l’avvenuto risarcimento del danno e il suo effettivo intento riparatorio, non incidessero comunque adeguatamente nella valutazione della gravità del danno direttamente conseguente alla verificazione del fatto-reato.

Per la Suprema Corte, tuttavia, il ricorso è manifestamente infondato. Quanto alla asserita insussistenza della causalità della colpa, come accertabile in esito all’esperimento di un valido giudizio controfattuale, gli Ermellini spiegano che “il profilo della ravvisabilità della causalità della colpa richiede, in relazione allo specifico addebito contestato, di accertare se la riscontrata violazione delle regole cautelari abbia, o meno, cagionato l’evento. L’intera struttura del reato colposo si fonda, infatti, su questo specifico rapporto intercorrente tra l’inosservanza della regola cautelare di condotta e l’evento, che viene, per l’appunto, individuato con l’espressione causalità della colpa”.

Il concetto, ricordano anche i giudici del Palazzaccio, è normativamente fondato sul dettato dell’art. 43 cod. pen., a tenore del quale “è necessario che l’evento si verifichi a causa di negligenza, imprudenza, imperizia ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

Ne consegue che la causa dell’evento va sempre individuata nella condotta materiale, che, tuttavia, nei reati colposi “deve essere caratterizzata dalla violazione del dovere di diligenza. Tale è, quindi, il significato da imputare all’indicata norma, e cioè quello di richiedere che l’evento si verifichi “a causa” di negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, esigendo, ai fini del rimprovero a titolo di colpa, che essa si materializzi nell’evento concretamente accaduto”.

 

Il giudizio contrattuale

Pertanto, la verifica se quella specifica violazione della regola cautelare abbia, o meno, cagionato l’evento (causalità della colpa) si sostanzia in un giudizio controfattuale compiuto in relazione alla violazione della regola di cautela. E questo giudizio controfattuale, prosegue la Cassazione, “va compiuto sia nella causalità commissiva che in quella omissiva, ipotizzando nella prima che la condotta sia stata assente e che nella seconda sia stata invece presente, verificando il grado di probabilità che l’evento si sarebbe comunque prodotto. Lo statuto logico del rapporto di causalità rimane sempre, cioè, quello del “condizionale controfattuale“, per cui l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del nesso causale tra condotta ed evento, e cioè il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell’omissione dell’agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo comportano l’esito assolutorio del giudizio”.

Ma la Suprema Corte si sofferma anche sul fatto che la colpa ha, oltre ad un versante oggettivo, incentrato sulla condotta posta in essere in violazione di una norma cautelare, anche “un profilo di natura squisitamente soggettiva, connesso alla possibilità dell’agente di osservare la regola cautelare. Il rimprovero colposo riguarda, quindi, la realizzazione di un fatto di reato che poteva essere evitato attraverso l’osservanza delle norme cautelari violate.

Il profilo soggettivo e personale della colpa viene, di fatto, individuato nell’esigibilità del comportamento dovuto, e cioè nella possibilità soggettiva dell’agente di rispettare la regola cautelare, ovvero nella concreta possibilità di pretendere l’osservanza di tale norma. Trattasi di aspetto, all’evidenza, afferente al rimprovero personale dell’agente, come tale a giusto titolo collocabile nell’alveo specifico della colpevolezza”.

 

Accertata la causalità della colpa, l’infortunio è accaduto per violazione delle regole cautelari

Arrivando al dunque, secondo la Cassazione, applicando questi principi al caso di specie, è corretta la motivazione con cui la Corte territoriale ha ritenuto configurabile nei confronti dell’imputato la ricorrenza della causalità della colpa, ravvisando nella riscontrata violazione delle regole cautelari la causa di verificazione dell’evento. Per gli Ermellini, il giudice di merito ha “correttamente esperito il giudizio controfattuale, giungendo alla logica ed argomentata conclusione che, se il datore di lavoro avesse rispettato le necessarie prescrizioni di cautela, adottando le misure indispensabili ad evitare il rischio di cadute, l’evento infortunistico non si sarebbe verificato”.

Infatti, com’è stato accertato, il rischio di caduta e/o ribaltamento era connesso “ad un uso improprio dell’allineamento delle banchine ai cassoni dei camion unito all’assenza di qualsivoglia più elementare presidio antinfortunistico”, per cui “la violazione della regola basilare (ovvero assicurarsi che i magazzinieri operassero in sicurezza sulle pedane) da parte del datore di lavoro e la esigibilità della stessa (era sufficiente bloccare le ruote del camion) è il punto centrale della causalità della colpa e ciò anche senza disquisire sulla dinamica dell’evento” perché, se quelle cautele antinfortunistiche fossero state adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di un ribaltamento del carrello elevatore.

Il rimprovero colposo riguarda, pertanto, “proprio la realizzazione di un fatto di reato che ben poteva essere evitato mediante la puntuale osservanza delle specifiche norme cautelari violate, rendendo, di conseguenza, del tutto infondata la contraria doglianza dedotta da parte del ricorrente”.

 

Esclusa anche la natura “abnorme” della condotta dell’autotrasportatore

Rigettato con sostanzialmente le stesse motivazioni anche il secondo motivo di ricorso, relativo alla presunta condotta aberrante del camionista. Gli Ermellini infatti convengono anche qui con i giudici territoriali i quali avevano ritenuto che l’aver inavvertitamente spostato il camion durante lo svolgimento di un’operazione di carico di merci non potesse configurarsi come una condotta aberrante, del tutto imprevedibile ed eccezionale.

Il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è, infatti, esonerato da responsabilità unicamente quando la condotta del dipendente, rientrante nelle mansioni che gli sono proprie, sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che sia consistito in qualcosa radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro” ribadisce la Cassazione, precisando ulteriormente che deve ritenersi come abnorme “soltanto il comportamento del lavoratore che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro.

Deve trattarsi, in sostanza, di una condotta colposa tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia”.

 

Le norme antinfortunistiche sono mirate anche a tutelare i lavoratori dalle loro imprudenze

Del resto, rammentano anche i giudici del Palazzazzio, , le norme dettate in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro “perseguono il fine di tutelare il lavoratore persino da incidenti dovuti a sua stessa negligenza, imprudenza od imperizia. La condotta imprudente dell’infortunato non assurge, cioè, a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento quando sia comunque riconducibile all’area di rischio inerente all’attività svolta dal lavoratore ed all’omissione di doverose misure antinfortunistiche da parte del datore di lavoro. Il titolare della posizione di garanzia è tenuto ad evitare che si verifichino eventi lesivi dell’incolumità fisica intrinsecamente connaturati all’esercizio di talune attività lavorative, anche nell’ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti a eventuali negligenze, imprudenze e disattenzioni di terzi o dei lavoratori subordinati, la cui incolumità deve essere protetta con appropriate cautele”. Il garante non può, infatti, invocare, a propria scusa, il principio di affidamento, assumendo che il comportamento del lavoratore era imprevedibile, “poiché tale principio non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia”.

La Cassazione precisa altresì che non assume alcun rilievo la circostanza che l’autotrasportatore non fosse alle dirette dipendenze dell’imputato, considerato che questi “era ben consapevole che i magazzinieri della sua ditta avessero la necessità di fare affidamento sugli autisti degli autocarri nelle operazioni di carico e scarico dei bancali, per cui questi era comunque obbligato, in quanto datore di lavoro, al controllo di fattori di rischio anche nei riguardi di terzi non dipendenti e tenuto ad attuare le misure antinfortunistiche al fine di assicurare la corretta osservanza delle misure precauzionali da adottare”, compreso il divieto per i magazzinieri di salire sul carrello elevatore in mancanza di cunei apposti alle ruote dei camion durante le operazioni di carico e scarico al fine di scongiurare il rischio di caduta e/o di investimento.

Per inciso, rigettata anche l’ultima doglianza relativa alla mancata applicazione della causa di non punibilità. Anche qui, secondo la Suprema Corte, i giudici territoriali hanno ben evidenziato le ragioni per le quali hanno ritenuto di escludere la configurabilità dell’ipotesi ex art. 131-bis cod. pen., “atteso che l’elevato grado di colpa imputabile al datore d lavoro, a giusto titolo condannato per l’ipotesi delittuosa ascrittagli, mal si concilia, e anzi confligge, con la possibilità di qualificare la stessa negli invocati limiti della particolare tenuità del fatto”.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Infortuni sul Lavoro

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