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Non è possibile ritenere unico responsabile dell’incidente un motociclista che cade a terra a causa di una buca sulla strada, peraltro nemmeno di notevoli dimensioni, senza neppure aver accertato, ad esempio, a che velocità procedesse e, soprattutto, senza aver minimamente verificato la condotta e le eventuali omissioni nella manutenzione da parte del custode, la cui responsabilità non può essere esclusa a priori, nemmeno in caso di comportamento negligente da parte del danneggiato.

E’ un’ordinanza di estrema rilevanza su uno dei sinistri più frequenti che accadono lungo le strade italiane, viste anche le condizioni di dissesto che spesso le caratterizzano, quella, la n. 39965/21 depositata dalla Corte di Cassazione, terza sezione civile, il 14 dicembre 2012.

 

Un motociclista chiede i danni al Comune per una caduta su una buca

Un centauro aveva citato in causa il Comune di Napoli per sentirlo condannare al risarcimento dei danni conseguiti alle lesioni riportate in un sinistro stradale verificatosi nel 2013 in città: percorrendo la Statale 162 alla guida di un motociclo, l’uomo era finito con la ruota anteriore in una buca presente in corrispondenza di un giunto di dilatazione, perdendo il controllo del mezzo e rovinando al suolo.

Il Tribunale partenopeo però aveva rigettato la domanda, così come la Corte d’Appello di Napoli, con sentenza del 2018, aveva respinto il gravame. I giudici avevano osservato che risultava effettivamente provata l’anomalia della sede stradale costituita da una buca (delle dimensioni di 21 centimetri per 25 e profonda 10 centimetri), aggiungendo che “la presenza di una sconnessione del fondo stradale costituisce in tesi una anomalia rispetto all’utente che faccia affidamento sulla normale transitabilità della sede viaria”.

 

Per i giudici il centauro con maggiore attenzione avrebbe potuto evitare l’ostacolo

Tuttavia, la Corte, tenuto conto delle condizioni di buona visibilità (il sinistro si era verificato alle 15,20, in una  bella giornata e in un tratto rettilineo) e del fatto che la buca aveva, a detta dei giudici territoriali, “apprezzabili dimensioni” e non era occultata da materiali di sorta, aveva concluso che il motociclista avrebbe potuto avvistarla tempestivamente, e che quindi l’incidente risultava prevenibile ed evitabile se il danneggiato avesse prestato la dovuta attenzione alla guida e non avesse proceduto a elevata velocità.

Dunque, secondo la Corte d’appello, sia che si inquadrasse la fattispecie in esame sotto l’egida normativa dell’art. 2051 c.c. (responsabilità da cose in custodia), sia sotto il referente normativo dell’art. 2043 c.c. (cd. insidia o trabocchetto), in entrambe le ipotesi il “delineato comportamento colposo dell’utente danneggiato” avrebbe escluso la responsabilità della Pubblica Amministrazione, integrando il cosiddetto “caso fortuito” – comprensivo del fatto del terzo e della colpa esclusiva della vittima -, che interrompe il nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno.

 

Il danneggiato ricorre per Cassazione lamentano l’omessa verifica della diligenza del custode

Il motociclista ha pertanto proposto ricorso per cassazione lamentando che la Corte territoriale avesse ravvisato gli estremi del caso fortuito senza valutare che questo “deve essere connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode”.

Il ricorrente sottolineava come la sua condotta di guida non avesse avuto il carattere di autonomia, eccezionalità, imprevedibilità ed inevitabilità tale da escludere la responsabilità del custode, “in quanto possa reputarsi “caso fortuito”, aggiungendo anche che, quand’anche fosse risultata accertata una condotta colposa da parte sua, ciò non basterebbe di per sé a escludere la responsabilità del custode, “in quanto occorre, anche, che quella condotta non fosse prevedibile”.

La Cassazione accoglie il ricorso e fa chiarezza sul punto

Ebbene, il motivo è ritenuto fondato e meritevole di accoglimento dalla Suprema Corte, che ne approfitta per chiarire una serie di punti sulla fattispecie.

Pur facendo riferimento al paradigma della responsabilità per danno causato da cose in custodia, la Corte territoriale ha erroneamente “letto” la vicenda sotto la lente propria del paradigma dell’art. 2043 c.c. finendo per assimilare gli effetti dei due inquadramenti ai fini del rigetto della domanda – premettono gli Ermellini – Infatti, pur richiamando formalmente il criterio di imputazione di cui all’art. 2051 c.c., la sentenza ha mostrato in modo inequivoco di ritenere che la responsabilità del Comune potesse essere configurata soltanto a fronte del concreto riscontro di un’insidia (o pericolosità occulta della cosa), così da valorizzare il dato della avvistabilità della buca e, quindi, la prevenibilità ed evitabilità da parte del conducente e pervenendo all’esclusione della responsabilità del convenuto sull’assunto che l’anomalia stradale potesse (e dovesse) essere rilevata dal conducente della mota”.

Questa impostazione, tuttavia, risulta errata secondo i giudici del Palazzaccio, alla luce della “pacifica (e formalmente dichiarata dalla sentenza impugnata) riconducibilità della fattispecie in esame nel paradigma dell’art. 2051 c.c., e non in quello dell’art. 2043 c.c., senza possibilità di utilizzare, per l’accertamento della responsabilità del custode, categorie ad essa non pertinenti”.

 

Il caso rientra nel paradigma dell’art. 2051, responsabilità da cose in custodia, non 2043

E qui la Cassazione rammenta che la responsabilità ex art. 2051 c.c. ha natura oggettiva e discende dall’accertamento del rapporto causale fra la cosa in custodia e il danno, salva la possibilità per il custode di fornire la prova (liberatoria) del caso fortuito, ossia di un elemento esterno che valga a elidere il nesso causale e che può essere costituito da un fatto naturale e dal fatto di un terzo o della stessa vittima. “Tale essendo la struttura della responsabilità ex art. 2051 c.c. – prosegue la Suprema Corte -, l’onere probatorio gravante sul danneggiato si sostanzia nella duplice dimostrazione dell’esistenza (ed entità) del danno e della sua derivazione causale dalla cosa, residuando a carico del custode l’onere di dimostrare la ricorrenza del fortuito”.

Nell’ottica della previsione dell’art. 2051 c.c., dunque, tutto “si gioca” sul piano di un accertamento di tipo “causale” (della derivazione del danno dalla cosa e dell’eventuale interruzione di tale nesso per effetto del fortuito), “senza che rilevino altri elementi, quali il fatto che la cosa avesse o meno natura “insidiosa” o la circostanza che l’insidia fosse o meno percepibile ed evitabile da parte del danneggiato trattandosi di elementi consentanei ad una diversa costruzione della responsabilità, condotta alla luce del paradigma dell’art. 2043 c.c.”.

 

La condotta del danneggiato rileva solo se imprevedibile e imprevenibile integrando il fortuito

Al cospetto dell’art. 2051 c.c., la condotta del danneggiato può quindi rilevare “unicamente nella misura in cui valga a integrare il caso fortuito, ossia presenti caratteri tali da sovrapporsi al modo di essere della cosa e da porsi essa stessa all’origine del danno in via esclusiva: deve pertanto ritenersi che, ove il danno consegua all’interazione fra il modo di essere della cosa in custodia e l’agire umano, non basti a escludere il nesso causale fra la cosa e il danno la condotta lato sensu colposa del danneggiato, richiedendosi anche che la stessa si connoti per oggettive caratteristiche di imprevedibilità ed imprevenibilità che valgano a determinare una definitiva cesura nella serie causale riconducibile alla cosa, ma a maggior ragione una condotta del danneggiato che, senza essere in qualche modo inosservante della normalità dell’esercizio dell’attività esercitata legittimamente sulla cosa, come nella specie la circolazione sulla pubblica strada, si profili solo ex post, cioè all’esito dell’apprezzamento dopo il verificarsi del danno dovuto alla condizione della cosa, tale che, se non fosse stata tenuta nel modo in cui lo è stato, il danno si sarebbe potuto evitare nonostante quella condizione”: in altre parole, va valutata anche l’incidenza della “cosa” e la responsabilità del custode.

 

Una condotta “disattenta” della vittima non basta a escludere la responsabilità dell’Ente

E infatti l’ordinanza cita altre sentenze della stessa Cassazione secondo cui “la eterogeneità tra i concetti di “negligenza della vittima” e di “imprevedibilità” della sua condotta da parte del custode ha per conseguenza che, una volta accertata una condotta negligente, distratta, imperita, imprudente, della vittima del danno da cose in custodia, ciò non basta di per sé ad escludere la responsabilità del custode. Questa è infatti esclusa dal caso fortuito, ed il caso fortuito è un evento che praevideri non potest”.

L’esclusione della responsabilità del custode, pertanto, quando viene eccepita da quest’ultimo la colpa della vittima, esige un duplice accertamento prosegue la Suprema Corte: “che la vittima abbia tenuto una condotta negligente; che quella condotta non fosse prevedibile”.  E al riguardo, gli Ermellini adducono un’altra sentenza in cui si stabilisce che “la mera disattenzione della vittima non necessariamente integra il caso fortuito per i fini di cui all’art. 2051 c.c., in quanto il custode, per superare la presunzione di colpa a proprio carico, è tenuto a dimostrare di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire i danni derivanti dalla cosa.

La condotta della vittima d’un danno da cosa in custodia può dirsi imprevedibile quando sia stata eccezionale, inconsueta, mai avvenuta prima, inattesa da una persona sensata”.

 

Il giudice di merito non può prendere in esame solo la condotta colposa del danneggiato

Stabilire se una certa condotta della vittima d’un danno arrecato da cose affidate alla custodia altrui fosse prevedibile o imprevedibile è un giudizio di fatto, come tale riservato al giudice di merito, riconosce la Cassazione, aggiungendo però che “il giudice di merito non può astenersi dal compierlo, limitandosi a prendere in esame soltanto la natura colposa della condotta della vittima”.

E anche qui i giudici del Palazzaccio si basano su una serie di pronunce della Cassazione, anche specifiche, come quella che, con riguardo alla fruizione del godimento della strada pubblica, ha affermato che “l’ente proprietario di una strada si presume responsabile, ai sensi dell’art. 2051 c.c., dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo immanente connesse alla struttura ed alla conformazione della stessa e delle sue pertinenze, fermo restando che su tale responsabilità può influire la condotta della vittima, la quale, però, assume efficacia causale esclusiva soltanto ove sia qualificabile come abnorme, cioè estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto, potendo, in caso contrario, rilevare ai fini del concorso causale ai sensi dell’art.1227 c.c.”.

Ancora: “In tema di responsabilità civile per danni da cose in custodia, la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione dell’art. 1227, comma 1, c.c., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost., sicché, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro

 

I vizi della sentenza impugnata

Venendo al caso si specie, la Cassazione ribadisce come la corte territoriale abbia commesso “un evidente errore di sussunzione del fatto concreto, almeno per come l’ha descritto, sotto la norma dell’art.2051 c.c., nel senso che quanto da essa affermato non avrebbe potuto in alcun modo escludere quella sussunzione”.

Nessun accertamento su velocità, limiti, livello e tempistiche di manutenzione della strada

Le “generiche affermazioni” della motivazione circa l’uso normale della cosa, la “percepibilità” del pericolo e la prevenibilità risultano secondo gli Ermellini “del tutto assertorie e aspecifiche riguardo alla vicenda giudicata”: non si sa, ad esempio, a che velocità andasse il motociclista, quale fosse il limite di velocità prescritto e se fosse stato superato; non è spiegato se il non meglio individuato tipo di manovra attuabile per evitare la buca, “ove a minore velocità ne fosse stata percepita o dovesse esserne percepita la presenza, fosse compatibile con le condizioni di traffico, cioè potesse tenersi senza arrecare ad esse problemi”; non si sa, altro aspetto chiave, da quanto tempo fosse presente la buca, né che tipo di manutenzione fosse stata fatta e con che frequenza il Comune la esercitasse sulla strada. Tutti elementi, questi, va a concludere la Cassazione, che sarebbero stati necessari “per ricostruire in concreto la condotta del motociclista come rilevante ed in che misura ai fini della incidenza causale sulla verificazione dell’evento: le ultime due circostanze, ove dimostrate dall’ente, lo sarebbero state per apprezzare la possibilità di intervenire dell’ente proprietario della strada”.

La buca, peraltro, non erano affatto di notevoli dimensioni

Inoltre, “ponendosi nella prospettiva errata della c.d. insidia (rilevante, peraltro, nella logica dell’applicazione dell’art. 2043 c.c.)”, la Cassazione rileva anche che la Corte di merito non non ha considerato che “le dimensioni della buca erano anche tali che essa non era affatto di grandi dimensioni”, sicché “resta incomprensibile come la presenza di una buca delle dimensioni e profondità accertata, sarebbe stata percepibile ove il motociclista non avesse viaggiato alla velocità (ignota) a cui viaggiava”.

Insomma, la motivazione della sentenza impugnata che addebita al conducente il fatto dannoso è nella sostanza “anche assertoria nell’individuare il comportamento ascrivibile al conducente. Deve in definitiva ritenersi che il giudizio di sussunzione espletato dalla sentenza impugnata ha ignorato in astratto che il mero rilievo di una condotta colposa del danneggiato non è automaticamente idoneo a interrompere il nesso causale, che è manifestamente insito nel fatto stesso che la caduta sia originata dalla (prevedibile e prevenibile) interazione fra la condizione pericolosa della cosa e l’agire umano, occorrendo, invece, che abbia caratteri tali da farle assumere efficacia causale esclusiva rispetto a quella dello stato della res”.

E questo, “quando detta condotta ricorra e non abbia tali caratteri e sempre rimanendo su un piano astratto, non significa, peraltro, che – ancorché non integrante il fortuito – non possa assumere rilevanza ai fini della liquidazione del danno cagionato dalla cosa in custodia, ma ciò può avvenire non all’interno del paradigma dell’art. 2051 c.c., bensì ai sensi dell’art. 1227 c.c. (operante, ex art. 2056 c.c., anche in ambito di responsabilità extracontrattuale), ossia sotto il diverso profilo dell’accertamento del concorso colposo del danneggiato, valutabile sia nel senso di una possibile riduzione del risarcimento, secondo la gravità della colpa del danneggiato e le conseguenze che ne sono derivate (ex art. 1227 c.c., comma 1), sia nel senso della negazione del risarcimento per i danni che l’attore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza (ex art. 1227 c.c., comma 2), fatta salva, nel secondo caso, la necessità di un’espressa eccezione della controparte”.

La sentenza impugnata, che non ha rispettato tali principi, “ma in buona sostanza ha applicato il criterio di responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c. e peraltro lo ha fatto in modo generico”, è stata pertanto cassata, con rinvio alla Corte territoriale che, in diversa composizione, dovrà procedere a nuovo esame alla luce delle considerazioni svolte nell’ordinanza.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Responsabilità della Pubblica Amministrazione

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