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I sintomi che un paziente riferisce nel corso di un accesso al pronto soccorso o di una visita medica sono spesso “comuni”, nel senso che alcune malattie o sindromi totalmente diverse possono  però manifestarsi in modi molto simili. Ad esempio, un dolore toracico può essere dovuto a un trauma fisico subìto di recente o ad ansia somatizzata ma può essere anche la spia di un ben più grave infarto al miocardio in corso.

Il medico si trova quindi sovente di fronte ad un quadro sintomatologico che può essere dovuto a più cause alternative, a più malattie. L’individuazione della patologia di cui soffre effettivamente il paziente è quindi frutto di un percorso per esclusione, laddove però l’eliminazione delle ipotesi alternative deve avvenire mediante sia uno scrupoloso esame clinico diretto sul paziente sia attraverso le indagini strumentali quali analisi di laboratorio o diagnostiche: è a questo processo  che si fa riferimento quando di parla di “diagnosi differenziale” che deve ovviamente essere particolarmente accurata quanto tra le possibili cause del malessere rientrino anche patologie letali come quelle cardiache.

Emblematico, al riguardo, il caso di cui si è occupata la Cassazione con la sentenza n. 1665/23 depositata il 18 gennaio 2023.

 

Medico del pronto soccorso condannato per non aver diagnosticato un infarto a un paziente

Un medico del pronto soccorso dell’ospedale San Pellegrino di Castiglione delle Stiviere (in foto), nel Mantovano, era stato ritenuto responsabile dal tribunale di Mantova del reato di omicidio colposo ai danni di un paziente, con conseguente condanna del sanitario e della struttura al risarcimento in favore dei familiari. Decisione confermata in secondo grado, nel 2020, dalla Corte d’appello di Brescia, che aveva parzialmente riformato la sentenza di prime cure solo nel quantum risarcitorio, riducendo a 200mila euro l’entità della somma liquidata a titolo di provvisionale in favore della moglie e in proporzione quella per i figli delle vittima.

L’ospedale ricorre in Cassazione, la diagnosi corretta non avrebbe garantito la sopravvivenza

La struttura ospedaliera, tuttavia, ha proposto ricorso anche per Cassazione, lamentando (ancora) sia la quantificazione della provvisionale disposta a favore delle parti civili, sia nel merito, la responsabilità accertata in capo al proprio medico, con particolare riferimento al nesso di causalità tra le omissioni e il decesso e la loro qualificazione come “colpa grave”.

Secondo il ricorrente, la Corte di appello, dopo aver descritto “in modo scolastico e generico” le caratteristiche della patologia coronarica riscontrata nel caso di specie, non avrebbe spiegato quale comportamento avrebbe dovuto tenere il medico onde evitare o comunque mitigare le conseguenze negative dell’evento. L’ospedale, inoltre, evidenziava come, a fondamento dell’affermazione di responsabilità dell’imputato, la sentenza riportasse il passaggio della relazione peritale che avrebbe escluso che l’eventuale, tempestiva corretta diagnosi avrebbe consentito di evitare l’evento morte con un grado di probabilità scientifica prossimo alla certezza, dando così prova del “malgoverno”del principio affermato dalla nota sentenza “Franzese” e della “manifesta illogicità” della decisione che si sarebbe fondata sull’abbandonato criterio dell’aumento delle chances di sopravvivenza.

Secondo il ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe detto nulla circa la reale capacità salvifica della omessa condotta contestata alla luce delle peculiari caratteristiche del paziente, con particolare riferimento alla sua accertata patologia, alla sua “asintomaticità” e alla gravità dell’evento.

 

Non si sarebbe trattato di “colpa grave”, la diagnosi era complessa, i sintomi non gravi

Secondo la tesi difensiva, valutata con giudizio ex ante, e avuto riguardo, in particolare, alle informazioni portate a conoscenza dell’imputato (a da lui conoscibili), non si sarebbe invero potuto addebitare alcun rimprovero di negligenza grave al sanitario, che al contrario avrebbe operato in accordo alle buone prassi vigenti con riferimento ai casi – apparentemente – simili a quello da lui osservato la notte dei fatti, fermo restando che il richiamo alle linee guida non poteva ritenersi risolutivo laddove la difficile diagnosi le renda inapplicabili.

L’imputato ha poi aggiunto alcuni motivi di ricorso sostenendo di aver effettuato correttamente, al momento dell’accesso della vittima al pronto soccorso, una diagnosi differenziale in conformità ai parametri comportamentali dell’homo ejusdern professionis et condicionis, contestando la censura mossa dai giudici secondo i quali egli avrebbe dovuto sottoporre il paziente all’ecocardiogramma: un esame la cui opportunità non sarebbe stata spiegata dalla Corte di merito, a fronte della giovane età della vittima, che aveva dichiarato di non aver mai sofferto di patologie cardiache e lamentava dolori e disagi che duravano da ore: il quadro clinico (dolore alle braccia e vomito) non avrebbe deposto a favore di un attacco cardiaco in corso, avendo riguardo alla causa (traumatica o comunque chiaramente identificabile) dei dolore toracico.

Il sanitario concludeva osservando di non essere un cardiologo ma un medico d’urgenza che si era trovato di fronte un paziente che presentava sintomi non gravi, ricollegabili a cause esterne (l’aver cioè sollevato poche ore prima dei pesanti bancali e l’indigestione di un panino), con una storia anamnestica silente sui pregressi infarti già subiti dal paziente (e da questi stesso sconosciuti). La sua diagnosi, peraltrom aveva trovato (iniziale) conforto nel miglioramento delle condizioni del paziente, tenuto sotto osservazione, dopo la somministrazione di antidolorifici.

Ma per la Suprema Corte il ricorso è infondato. “Proprio attraverso la caratterizzazione del caso concreto e la valutazione correlata ad esso del grado di probabilità logica, va disatteso quanto osservato dai ricorrenti a proposito della supposta lacunosità della risposta argomentativa della Corte di merito alle lagnanze in punto di nesso causale tra condotta omissiva ed evento letale” sentenziano i giudici del Palazzaccio.

 

Se eseguiti secondo la diagnosi differenziale gli esami diagnostici avrebbero accertato l’infarto

Secondo i quali, un esame complessivo e contestuale di varie parti della sentenza impugnata (in cui la Corte distrettuale non faceva che trarre le somme dagli elementi emersi nelle precedenti fasi del giudizio di merito) rende evidente come, pur in mancanza di elementi certi e precisi in ordine all’orario esatto della morte, “la caratterizzazione della vicenda sulla base delle ricostruite peculiarità della situazione concreta induce a ritenere che, ove i necessari esami diagnostici fossero stati eseguiti dall’imputato nella prospettiva di una diagnosi differenziale, l’episodio infartuale acuto in corso sul paziente sarebbe stato immediatamente accertato, questi sarebbe stato immediatamente avviato all’unità di terapia intensiva coronarica, ove gli sarebbe stata praticata la defibrillazione e, con elevato grado di probabilità logica, il paziente stesso si sarebbe salvato”.

Andavano eseguiti elettrocardiogramma e dosaggio delle troponina

Per i giudici del Palazzaccio, in altri termini, vi erano tutte le condizioni “che suggerivano, ed anzi imponevano al medico di turno di esperire accertamenti onde pervenire a una diagnosi differenziale, ossia di considerare l’ipotesi, tutt’altro che remota, che i sintomi presentati dal paziente potessero essere correlati a episodio di cardiopatia ischemica acuta e che si dovesse pertanto procedere ad accertamenti in tale direzione”: accertamenti che i periti avevano indicato nell’esecuzione di elettrocardiogramma e di dosaggio della troponina, e che “più che verosimilmente secondo il parere peritale avrebbero nella specie dato conferma dell’evento” asserisce la Suprema Corte, confermando quindi le condizioni della Corte d’Appello.

Colpa grave aver trascurato sintomi classici dell’infarto

Con un ultimo “appunto” circa il grado di colpa contestato dal ricorrente, grave anche per i giudici della Cassazione considerato che nel caso di specie “il dolore ad ambedue le braccia, associato ad episodio emetico, avrebbe imposto un accertamento circa la possibile riferibilità del quadro clinico a patologia ischemica”: cosa che invece il medico del pronto soccorso ha colpevolmente e fatalmente omesso di fare.

Dunque, condanna confermata, così come la determinazione della provvisionale in favore delle parti civili, in considerazione del principio secondo cui il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva “non è impugnabile per cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato a essere “travolto” dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento”.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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