Hai bisogno di aiuto?
Skip to main content

Il datore di lavoro di un operaio che si sia infortunato a causa di un macchinario pericoloso non può andare indenne da responsabilità per il fatto che l’attrezzo aveva il marchio CE, tanto più se si tratta di una macchina datata che andava quindi revisionata sulla base delle normative più recenti.

E’ una sentenza di assoluto interesse quella, la n. 41147/21, depositata dalla Corte di Cassazione il novembre 2021 sull’ennesimo, grave infortunio sul lavoro.

 

Un operaio riporta lo schiacciamento di una mano pulendo un macchinario

Il fatto era accaduto il 6 maggio 2014 nel Padovano. Un lavoratore aveva avuto una mano schiacciata, con plurime fratture, dalla ripartenza dei rulli, che prima erano in posizione di quiete, di un macchinario che stava ripulendo da residui di lamiera.

Si trattava di una macchina, detta “linea di spianatura e taglio trasversale bandellatrice” (in foto un esemplare simile), in cui la zona lavoro contenente parti mobili in movimento (sia rulli che una cesoia) era protetta da una grata di protezione apribile con un chiavistello ma priva di dispositivo automatico di blocco automatico in grado di arrestare il movimento all’apertura della grata: una lacuna che purtroppo costa ogni anno in Italia un numero enorme di gravi lesioni alle mani e agli arti e anche tante, troppe amputazioni.

Il Tribunale di Padova, con sentenza del 2019, aveva ritenuto il datore di lavoro, legale rappresentante della S.P.A. “Commit Siderurgia” e delegato della società in materia di sicurezza, responsabile del reato di lesioni colpose gravi nei confronti dell’operaio suo dipendente, con violazione della disciplina antinfortunistica, condannandolo, con le circostanze attenuanti generiche stimate equivalenti all’aggravante, alla pena di giustizia (un mese di reclusione), condizionalmente sospesa. Decisione integralmente confermata nel 2020 dalla Corte d’Appello di Venezia presso la quale l’imputato aveva appellato il pronunciamento di primo grado.

 

Fornito al lavoratore un macchinario pericoloso anche se marchiato CE

I giudici di merito avevano ritenuto violato l’art. 71, comma 4, lett. a), nn. 1 e 2, del d. Igs. 9 aprile 2008, n. 81, avendo il datore di lavoro messo a disposizione del lavoratore una macchina non sicura, e avevano ritenuto non rilevante la circostanza, segnalata e documentata dalla difesa, che il macchinario avesse il marchio “CE” e che fosse regolarmente in commercio. In particolare, era stato osservato che, essendo stata acquistata la macchina nel 2004, cioè oltre dieci anni prima dell’incidente, era obbligo del datore di lavoro adeguare gli standard di sicurezza nel tempo alla luce dei progressi della tecnologia ed installare dei meccanismi automatici di blocco, richiamando al riguardo alcuni principi, puntualizzati da tempo dalla Suprema Corte.

Il primo dei quali così recita: “in tema di infortuni sul lavoro, la responsabilità del costruttore, nel caso in cui l’evento dannoso sia provocato dall’inosservanza delle cautele infortunistiche nella progettazione e fabbricazione della macchina, non esclude la responsabilità del datore di lavoro, sul quale grava l’obbligo di eliminare le fonti di pericolo per i lavoratori dipendenti che debbano utilizzare la predetta macchina e di adottare nell’impresa tutti i più moderni strumenti che la tecnologia offre per garantire la sicurezza dei lavoratori. A detta regola può farsi eccezione nella sola ipotesi in cui l’accertamento di un elemento di pericolo nella macchina o di un vizio di progettazione o di costruzione di questa sia reso impossibile per le speciali caratteristiche della macchina o del vizio, impeditive di apprezzarne la sussistenza con l’ordinaria diligenza”.

Il secondo principio citato nella sentenza impugnata, invece, è il seguente: “L’obbligo di ridurre al minimo il rischio di infortuni sul lavoro impone al datore di lavoro di verificare e garantire la persistenza nel tempo dei requisiti di sicurezza delle attrezzature di lavoro messe a disposizione dei propri dipendenti, non essendo sufficiente, per ritenere adempiuto l’obbligo di legge, il rilascio, da parte di un organismo certificatore munito di autorizzazione ministeriale, della certificazione di rispondenza ai requisiti essenziali di sicurezza”. I giudici avevano infine escluso la esorbitanza del comportamento del lavoratore che peraltro, chiamato a lavorare con compiti diversi, quel giorno era intento a svolgere le mansioni che gli erano state in concreto assegnate.

Il titolare dell’impresa tuttavia ha proposto ricorso anche per Cassazione lamentando in primis la mancata pronuncia del giudice di appello sulla particolare tenuità del fatto, doglianza che la Suprema corte ha accolto ma è stata anche l’unica.

Quello che qui preme sono gli altri motivi di ricorso, tutti rigettati dagli Ermellini, con particolare riferimento a quello in cui il ricorrente denunciava presunta violazione di legge (art. 71, comma 4, nn. 1 e 2, del d. Igs. n. 81 del 2008) nella parte in cui la norma che si pretende violata non avrebbe in realtà previsto in capo al datore di lavoro l’obbligo di sostituirsi al costruttore nell’installazione di sicurezze non presenti sin dall’origine in macchine marcate CE.

 

L’onere di intervenire sui macchinari sostituendosi al costruttore

Secondo il datore di lavoro, la regola cautelare che gli si imputava di aver violata avrebbe un perimetro assai più ampio rispetto a quello delineato dal legislatore ed estenderebbe l’ambito degli obblighi imposti al datore di lavoro con riferimento alla gestione dei macchinari oltre ogni confine di ragionevolezza e di esigibilità, addebitandogli di non avere installato sul macchinario un sistema di sicurezza che pacificamente non vi era mai stato, nonostante le rassicurazioni presenti sul libretto di uso e di manutenzione, in sostanza richiedendogli di superare la valutazione del costruttore, che aveva immesso in commercio il macchinario.

La lettura corretta dell’art. 71, nn. 1 e 2, del d.lgs. n. 81 del 2008 descriverebbe, ad avviso del ricorrente, il compito del datore di lavoro come accessorio ed esecutivo rispetto a quello del costruttore, non già come sostitutivo di esso, dovendo, per dettato di legge, attenersi alle istruzioni d’uso ed al manuale, scritti, appunto, dal costruttore; il riferimento alla “permanenza nel tempo” dei requisiti di sicurezza si sarebbe dunque dovuto riferire necessariamente al mantenimento e/o alla conservazione di quei requisiti che in precedenza erano effettivamente esistenti, non certo a requisiti che in quel momento e dall’origine in verità non esistevano.

Disattendendo la lettera della legge, i giudici, sempre secondo la tesi difensiva, avrebbero inteso imporre al datore di lavoro un obbligo – illegittimo poiché non previsto da alcuna norma – suppletivo e non già meramente esecutivo-integrativo rispetto a quello del costruttore.

Del resto, la “direttiva-macchine” (direttiva 2006/42/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 maggio 2006), osserva ancora il datore di lavoro, farebbe carico al costruttore, e non ad altri, l’obbligo di accertare che il prodotto immesso sul mercato presenti i requisiti di sicurezza, attestandolo attraverso apposita marcatura “CE”, mentre l’acquirente sarebbe mero beneficiario, essendo persona rinchiusa nella platea di coloro che fanno affidamento sulla marcatura.

Inoltre, l’eventuale alterazione della macchina, anche se effettuata per ragioni di sicurezza, farebbe venire meno l’originaria conformità. La descritta suddivisione delle sfere di responsabilità corrisponde concretamente – concludeva il ricorrente – al principio di dominabilità del rischio, poiché l’eventuale mancanza originaria sarebbe addebitabile solo al costruttore, non potendo l’acquirente intervenire né avendo le competenze per farlo. Diversamente, ove cioè il costruttore avesse consegnato al datore di lavoro una macchina priva di criticità e tali criticità fossero insorte durante l’epoca di governo del rischio del datore di lavoro, allora questi ne sarebbe stato responsabile.

E sempre collegato a questa questione nodale, il datore di lavoro si doleva anche della violazione dell’art. 43, comma 1, cod. pen., nella parte in cui si riteneva esigibile in capo al datore di lavoro la conoscenza e la correzione di un vizio occulto della macchina, vizio celato anche nel libretto d’uso e manutenzione della stessa. La sentenza, secondo il titolare della ditta, sarebbe censurabile anche sotto il profilo della valutazione del quoziente soggettivo della colpa, ossia della effettiva rimproverabilità dell’agente concreto per il mancato adeguamento al comando cautelare posto dall’ordinamento in astratto. La Corte di appello, secondo il legale rappresentate dalle fabbrica, non avrebbe valutato correttamente il tema della esigibilità in concreto della condotta diligente a suo carico, ossia la capacità soggettiva dell’agente di osservare la regola cautelare, citando anche una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che evidenziava la necessità di personalizzare il rimprovero colposo, misurandolo con la concreta situazione nella quale si collocava il soggetto agente, onde evitare “astrazioni basate sul c.d. agente modello”.

La Corte di merito si sarebbe adeguata, ma soltanto nominalmente, a tali parametri interpretativi, riferendosi in maniera generica, ad un monitoraggio periodico sul funzionamento dei dispositivi di sicurezza installatati e a una verifica di quelli eventualmente ancora mancanti. Il ricorrente sottolineava che l’omissione contestatagli aveva quale pre-requisito ineluttabile la conoscenza o la conoscibilità del vizio che avrebbe richiesto l’intervento manutentivo a correzione dello stesso: nel caso di specie, tuttavia, si trattava di vizio occulto, a ben vedere occultato dal costruttore. Il datore di lavoro citava quindi vari punti del manuale d’uso dal quale emergevano indicazioni fallaci, che sembravano indicare la presenza di interblocchi meccanici ovvero fotoelettrici collegati all’apertura del cancelletto di ingresso che non realtà non c’erano, e di fronte alle quali il datore si trovava in condizione di “minorata capacità critica, potendo fare affidamento sulle indicazioni del costruttore. Senza contare il fatto che anche la conformazione fisica del macchinario non avrebbe consentito di percepire una differenza rispetto a quanto indicato a livello documentale, e che nessun lavoratore escusso in istruttoria aveva percepito l‘anomalia, anche perché nessun incidente o problema si era mai verificato in precedenza, né era emersa la necessità di verificare un meccanismo che si era dimostrato efficace.

 

Il datore deve sempre accertare la corrispondenza dei macchinari ai requisiti di legge

Ma, come detto, i giudici del Palazzaccio hanno rigettato queste tesi. “E’ ben noto ed in linea di massima condivisibile il – severo – principio di diritto secondo il quale i datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza dell’ambiente di lavoro, è tenuto ad accertare la corrispondenza ai requisiti di legge dei macchinari utilizzati, e risponde dell’infortunio occorso ad un dipendente a causa della mancanza di tali requisiti, senza che la presenza sul macchinario della marchiatura di conformità “CE” o l’affidamento riposto nella notorietà e nella competenza tecnica del costruttore valgano ad esonerarlo dalla sua responsabilità ribadisce con forza la Cassazione.

La Suprema Corte ammette che le censure difensive non sono “irragionevoli”, ma, aggiunge, “trascurano di attribuire il giusto peso alla centrale importanza nel caso in esame del tipo di dispositivo di sicurezza omesso e alla visibilità di un meccanismo di segregazione delle parti mobili e pericolose (rulli di metallo in movimento) della macchina rispetto agli arti dei lavoratori che era affidato ad un chiavistello, agevolmente apribile, dovendosi provvedere con altra manovra su distante meccanismo ad interrompere l’erogazione di corrente, e non già ad un blocco di tipo automatico, che sarebbe stato oggettivamente più sicuro”.

E qui i giudici del Palazzaccio richiamano il già citato principio affermato dalla Suprema Corte in un caso simile di mancata adozione di protezione delle parti meccaniche in movimento, parti suscettibili di rivelarsi pericolose in caso di contatto del lavoratore, secondo il quale, lo si ripete: “In tema di infortuni sul lavoro, la responsabilità del costruttore, nel caso in cui l’evento dannoso sia provocato dall’inosservanza delle cautele infortunistiche nella progettazione e fabbricazione della macchina, non esclude la responsabilità del datore di lavoro, sul quale grava l’obbligo di eliminare le fonti di pericolo per i lavoratori dipendenti che debbano utilizzare tale macchina e di adottare nell’impresa tutti i più moderni strumenti che la tecnologia offre per garantire la sicurezza dei lavoratori; a detta regola può farsi eccezione nella sola ipotesi in cui l’accertamento di un elemento di pericolo sia reso impossibile per le speciali caratteristiche della macchina o del vizio di progettazione, che non consentano di apprezzarne la sussistenza con l’ordinaria diligenza”.

Nel caso specifico le parti in movimento non erano immediatamente raggiungibili da parte del lavoratore, “ma risultavano comunque protette in maniera insufficiente, cioè da un meccanismo esistente ma facilmente eludibile, come in effetti accaduto nel caso concreto, solo agendo su un chiavistello, con ogni evidenza agevolmente apribile, rendendosi necessario inoltre lo spegnimento manuale del macchinario con altra manovra”.

Pertanto, avuto riguardo alla “centralità del valore della tutela della salute del lavoratore, non può che valere lo stesso principio appena richiamato” prosegue la Cassazione, chiarendo anche che proprio per la stessa ragione (e cioè l’agevole verificabilità della situazione di pericolo) i giudici di merito avevano escluso che potesse parlarsi, malgrado le indicazioni nel libretto di istruzioni, “di un vizio occulto”, sottolineando che l’art. 71, comma 3, del d. Igs. n. 81 del 2008 impone l’obbligo di “ridurre al minimo i rischi connessi all’uso delle attrezzature di lavoro”.

 

La situazione di pericolo era agevolmente verificabile e per nulla “occulta”

Un’affermazione in linea con altre pronunce della Cassazione secondo le quali, ripetono i giudici del Palazzaccio, “l’obbligo di ridurre al minimo il rischio di infortuni sul lavoro (art. 71, D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81) impone al datore di verificare e garantire la persistenza nel tempo dei requisiti di sicurezza delle attrezzature di lavoro messe a disposizione dei propri dipendenti (art. 71, D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81), non essendo sufficiente, per ritenere adempiuto l’obbligo di legge, il rilascio, da parte di un organismo certificatore munito di autorizzazione ministeriale, della certificazione di rispondenza ai requisiti essenziali di sicurezza”.

In conclusione, secondo gli Ermellini il ragionamento dei giudici di merito risulta immune da vizi rilevabili in sede di legittimità, logico, “con particolare riferimento all’obbligo del datore di lavoro nel caso di specie, cioè trascorsi dieci anni dall’acquisto, di adeguare gli standard di sicurezza alla luce dei progressi della tecnologia e di installare dei meccanismi automatici di blocco”, e corretto “poiché conforme alle tradizionali affermazioni della esistenza degli obblighi, fondati sui valori costituzionali di solidarietà sociale e di tutela della salute (artt. 2 e 32 Cost.) e sul dettato dell’art. 71 del d.lgs. n. 81 del 2008, del datore di lavoro di verificare che le macchine siano prive di rischi e sicure per i lavoratori e di adottare nell’impresa tutti i più moderni strumenti che offre la tecnologia per garantire, appunto, la sicurezza dei lavoratori.

Dunque, la sentenza è stata annullata ma solo limitatamente all’omessa valutazione sulla richiesta causa di non punibilità, con rinvio sul punto a diversa sezione della Corte di appello di Venezia per la verifica su questa istanza. Per il resto, condanna confermata.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

Vedi profilo →

Categoria:

Blog Infortuni sul Lavoro

Condividi

Affidati a
Studio3A

Nessun anticipo spese, pagamento solo a risarcimento avvenuto.

Contattaci

Articoli correlati


Skip to content