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Viola l’obbligo di informazione medico-paziente il ginecologo che, pur sospettando una malformazione del feto, non lo comunica ai genitori privandoli così della possibilità di assumere una serie di scelte quali esami più approfonditi se non l’aborto terapeutico.

Lo ha ribadito con forza la Cassazione, nella sentenza n. 29497/19 depositata il 14 novembre 2019 e relativa ad un fatto risalente a ben 23 anni innanzi.

 

Genitori citano in causa il ginecologo per le malformazioni del feto

Nel 1996 per una giovane coppia la nascita della loro primogenita si trasforma in un’amara sorpresa: la piccola è affetta da gravi malformazioni causate da un’infezione di cytalomegalovirus (CMV).

Il ginecologo che ha seguito la gravidanza finisce “sotto accusa”. I due genitori lo citano in giudizio davanti al Tribunale di Trento unitamente all’Ospedale cittadino San Camillo, e i giudici, con sentenza del 2003, lo condannano a risarcire i due genitori del danno morale per il reato di cui all’articolo 328 c.p., rigettando invece la domanda di risarcimento degli ulteriori danni, anche per l’assenza di nesso causale tra l’incompleta informazione del rischio di infezion primaria del feto per il virus e il mancato esercizio del diritto all’interruzione volontaria della gravidanza.

Sia i genitori sia il ginecologo appellano il pronunciamento e con sentenza de 2005 la Corte d’appello di Trento accoglie l’appello del medico, rigettando quello di controparte.

 

Il primo ricorso in Cassazione

La coppia propone quindi un primo ricorso per Cassazione e la Suprema Corte, con la sentenza n. 2354/2010, cassa con rinvio la sentenza di secondo grado, confermando l’inesistenza (già dichiarata dal giudice d’appello) del reato ex articolo 328 c.p. e dichiarando che però il medico aveva violato il diritto della mamma ad essere informata sull’esistenza di indagini, pur pericolose per il feto, dirette ad accertare se questi avesse contratto il virus e se avesse riportato anomalie o malformazioni.

La Cassazione stabilisce altresì di accertare se, in rapporto a tale violazione dell’obbligo di informazione (inadempimento del contratto tra il ginecologo e la paziente), la conoscibilità di anomalie e malformazione del feto con i mezzi diagnostici disponibili all’epoca avesse causato (secondo una prognosi postuma), applicando la regola del “più probabile che non”, un grave pericolo di lesione anche del diritto alla salute della puerpera, e di accertare se per tale violazione dell’obbligo di informazione fosse stato leso anche il papà, pur terzo rispetto al contratto.

 

La Corte d’Appello dà torto ai genitori

Riassunta la causa dai coniugi dinanzi alla Corte d’appello di Brescia, quest’ultima dispone una consulenza tecnica d’ufficio e poi, con sentenza del 28 aprile 2017, rigetta le loro domande ritenendo che, come sarebbe emerso dalla Ctu, le conoscenze dell’epoca non avrebbero consentito di diagnosticare la natura primaria dell’infezione da CMV.

Sarebbe infatti necessaria la funicolocentesi, che però non avrebbe potuto essere espletata sulla base di un referto sierologico come quello risultato per la paziente.

E il mero sospetto che il medico avrebbe così rivelato alla donna, se egli avesse adempiuto al suo obbligo informativo, non avrebbe causato alla gestante un pericolo alla salute psico-fisica tale da indurla (erano stati oltrepassati i primi tre mesi di gravidanza) al cosiddetto aborto terapeutico.

 

Il nuovo ricorso in Cassazione

I due genitori, tuttavia, non si danno per vinti e presentano un nuovo ricorso per Cassazione adducendo quattro motivi di doglianza.

E la Cassazione ha dato loro ragione, bacchettando la Corte d’Appello bresciana per aver riportato indietro il thema decidendum, non attendendosi alle indicazioni della Corte rescindente.

Quel che infatti restava da fare, che ancora necessitava di accertamento fattuale – spiegano i giudici del Palazzaccio – “non era il contenuto nel caso concreto dell’inadempimento dell’obbligo informativo, che era già stato accertato nel senso che il (omissis) non aveva informato la gestante del rischio e della concreta possibilità di accertare, seppure con strumenti invasivi, la situazione effettiva del feto, bensì la sussistenza o meno di una lesione del diritto alla salute della gestante se questa avesse fruito della conoscibilità negatale dal silenzio del medico, vale a dire se fossero configurabili danni per mancato esercizio del diritto all’interruzione volontaria della gravidanza.

Il che significa – ribadisce la Cassazione – che è stata ritenuta certa la conoscibilità della situazione del feto mediante gli strumenti diagnostici “amniocentesi, villocentesi, funicolocentesi“, i quali d’altronde è stato espressamente rilevato che erano “eseguibili dalla diciottesima settimana“.

Tutto ciò come dato fattuale assorbito e incluso nell’accoglimento della censura relativa alla violazione dell’obbligo di informazione del medico, accoglimento che, dalla valutazione astratta de jure, si è espanso ad investire anche la conformazione concreta del caso, reputata evidentemente come già del tutto accertata”.

 

Sentenza cassata e nuovo rinvio

La corte territoriale, quale giudice di rinvio, doveva quindi accertare se, dall’inadempimento del (omissis) di tale contenuto, fossero derivati danni nel senso di mancato esercizio del diritto d’aborto.

Essa invece – conclude la Cassazione – si è spesa nell’accertare, tramite un’ulteriore consulenza tecnica d’ufficio, se all’epoca in cui avvenne la vicenda sarebbe stata conoscibile o meno la situazione del feto.

La corte, dunque, non ha tenuto in conto quel che già era stato cristallizzato nella sentenza rescindente ed è pertanto equiparabile a giudicato, per cui la censura risulta fondata”.

Ergo, sentenza nuovamente cassata e nuovo rinvio, alla Corte d’Appello di Trento, che questa volta dovrà partire dal dato di fatto della responsabilità del ginecologo per omessa informazione.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Malasanità

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