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Un lavoratore che chieda il risarcimento al proprio datore di lavoro per la malattia professionale rimediata a causa di omissioni nell’adozione delle misure di sicurezza deve dimostrare, oltre ovviamente all’esistenza del danno, la nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso tra l’uno e l’altra, ma se tale dimostrazione viene fornita, spetterà all’azienda provare di aver adottato tutte le misure esigibili per evitare l’insorgere del pregiudizio.

Con la sentenza 31920/22 depositata il 28 ottobre 2022 la Cassazione, Sezione Lavoro, ha ribadito le norme che regolano l’onere probatorio nei contenziosi, molti purtroppo in Italia, sul genere, dando peraltro torto a una società del calibro dell’Enel.

 

Accolta in tribunale la domanda di risarcimento per malattia professionale di un operaio Enel

Il Tribunale di Sulmona, con pronuncia del 2018, aveva accolto la domanda di un ex operaio di Enel Distribuzione, che aveva già ottenuto il riconoscimento dell’origine professionale in ambito Inail della malattia professionale con un danno biologico del 10%, nei confronti dell’azienda, di cui era stato dipendente per ben 31 anni dal 1969 al 2000, volta all’accertamento e alla declaratoria di responsabilità contrattuale e/o extracontrattuale della stessa nella causazione dei danni biologici, morali, patrimoniali e non, ed esistenziali patiti per essere stato addetto, quale “elettricista di nucleo di Distribuzione e operatore mezzi speciali” in Squadre Lavoro, all’esecuzione di mansioni usuranti: defrascamento e taglio alberi, scavi per i sostegni, getti per fondamenta, palificazioni, armamento di sostegni (lavori in quota), stesura e tesatura di conduttori (anche questi lavori in altezza), scavi per trincee (per elettrodotti sotterranei), installazione/sostituzione di nuovi trasformatori (lavori in altezza ed in cabina) ispezioni di linee aeree.

Il tutto senza che la società datrice di lavoro avesse fornito idonea tutela per i suddetti rischi, avesse operato una loro corretta valutazione e impartito la formazione specifica a prevenirli. Il giudice di primo grado aveva condannato Enel Distribuzione al pagamento, a titolo di risarcimento del danno differenziale, della somma di 70.178,15 euro oltre accessori.

 

In appello sentenza riformata, il lavoratore non aveva provato le omissioni datoriali

L’azienda tuttavia aveva appellato la decisione e la Corte d’appello di L’Aquila, alla luce delle risultanze istruttorie, con sentenza n. 799 del 2019, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva invece rigettato la domanda dell’elettricista. A fondamento della loro decisione i giudici di seconde cure, in sintesi, avevano evidenziavano che il lavoratore non aveva fornito, alla luce della documentazione in atti e delle risultanze istruttorie, prova sufficiente, il cui onere a loro dire ricadeva su di lui, della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno.

Secondo la Corte territoriale, sia che la questione fosse inquadrata in termini di responsabilità contrattuale ex art. 2087 cc, sia che si facesse riferimento alla responsabilità per fatto illecito ex art. 2043 cc, era evidente che in atti non vi era prova sufficiente della sussistenza del necessario rapporto di causalità tra l’attività lavorativa espletata e la malattia denunciata. Inoltre, la patologia in questione – riduzione del tenore calcico, spondilosi di media entità prevalentemente nei metameri distali, netta riduzione di ampiezza in sede posteriore dello spazio articolare L5-S1 con problemi al rachide – si sarebbe verificata in epoche, antecedenti l’emanazione del D.Igs. n. 626/1994, del D.Igs. n. 81/08 e del D.Igs. n. 106/09, ove non risultava che Enel avesse violato le norme di prevenzione e di sicurezza.

A questo punto il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione con due motivi di doglianza. Quello che qui preme è il primo nel quale il danneggiato lamenta il fatto che la sentenza impugnata gli avesse “erroneamente” addossato l’onere di provare l’omissione da parte del datore di lavoro di predisporre le misure di sicurezza (suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica) necessarie ad evitare il danno a fronte della prova fornita dal lavoratore sull’esistenza delle patologie, sulla nocività dell’ambiente di lavoro e sul loro rapporto causale, ed anche ad abundantiam, delle specifiche norme violate dall’azienda.

Motivo pienamente fondato secondo la Suprema Corte. Gli Ermellini osservano come la Corte territoriale, richiamati i principi in tema di ripartizione degli oneri di allegazione e prova in relazione alla prospettata responsabilità datoriale – sia extracontrattuale che contrattuale -, avesse ritenuto che fosse onere del lavoratore dimostrare la sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione delle misure di sicurezza suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica necessaria ad evitare il danno, asserendo che solo ove tale prova fosse stata offerta sarebbe sorto per il datore di lavoro l’onere di dimostrare di avere adottato le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del pregiudizio subito: onere che non era stato in concreto assolto.

 

Per la Cassazione però è l’azienda a dover provare di aver adottato tutte le misure esigibili

Ma “il richiamato passaggio argomentativo in punto dei criteri di ripartizione della prova è frutto di un errore di diritto del giudice di appello in quanto prescinde dai principi, pur correttamente evocati in sentenza, in tema di distribuzione dell’onere della prova, finendo con il porre a carico del lavoratore la dimostrazione della violazione da parte del datore di lavoro di specifiche misure antinfortunistiche – anche innominate -, laddove il lavoratore era tenuto solo a dimostrare il nesso di causalità tra le mansioni espletate e la nocività dell’ambiente di lavoro, restando a carico del datore di lavoro la prova di avere adottato tutte le misure (anche quelle cosiddette innominate) esigibili in concreto” ribadisce la Cassazione.

La quale rammenta come l’art. 2087 cod. civ. “non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento”.

Ne consegue che “incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno”.

La sentenza è stata pertanto cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di L’Aquila, in diversa composizione, per il riesame della causa alla luce però del criterio di ripartizione degli oneri probatori richiamato dalla Cassazione.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Infortuni sul Lavoro

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