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Tra le varie voci di danno che può richiedere chi è rimasto vittima di un incidente stradale, di un infortunio sul lavoro, di un caso di mala sanità, eccetera, o che possono invocare i suoi cari in caso di sinistro purtroppo mortale, vi sono anche i cosiddetti “danno emergente” e il “lucro cessante”.

In estrema sintesi, il primo consiste nella perdita economica che il patrimonio del danneggiato (o dei suoi eredi) ha subito a causa del fatto illecito; il secondo è invece il mancato guadagno che si sarebbe prodotto se l’inadempimento non fosse stato posto in essere.

Sui due concetti tuttavia si fa spesso parecchia confusione, anche da parte degli stessi giudici di merito chiamati a valutare le domande risarcitorie, per cui risulta assai preziosa l’ordinanza n. 1111/22 depositata il 14 gennaio 2022 dalla Cassazione, che si è occupata di un tragico caso sul genere

La causa della madre di una donna perita in un incidente per ottenere il danno patrimoniale

A ricorrere per Cassazione la madre di una donna rimasta vittima di un sinistro stradale, che ha impugnato la sentenza del 2020 con cui la Corte d’appello di Milano (nella foto), confermando la decisione dei giudici di primo grado del tribunale meneghino, aveva rigettato la domanda risarcitoria avanzata nei confronti del responsabile dell’incidente e della sua compagnia di assicurazioni, UnipolSai, avente per oggetto un ulteriore danno patrimoniale indicato nella misura di centomila euro. Tale danno era evocato dalla ricorrente per la perdita economica conseguente alla morte della figlia in quanto socia dell’impresa familiare di cui facevano parte le due donne, ma la corte territoriale aveva ritenuto la pretesa sfornita di prova.

La mamma della vittima si è affidata a tre motivi di ricorso, il primo dei quali attinente all’omessa considerazione della qualità di imprenditore della figlia deceduta, il secondo e terzo collegati all’omessa considerazione, anche nel valutare le prove per testi ritenute irrilevanti, del nesso causale tra fatto dedotto e danno: vale a dire, più precisamente, che il danno richiesto sarebbe stato collegato alla perdita economica derivata dal venir meno dell’apporto lavorativo della figlia nell’impresa di famiglia e non solo al fatto che detto apporto fosse indispensabile ai fini della prosecuzione dell’impresa familiare, danno parimenti dedotto.

 

Contestata la carenza di prove sul ruolo insostituibile della figlia nell’azienda di famiglia

Nel primo motivo, in particolare, la ricorrente lamentava il fatto che il giudice d’ appello avesse  erroneamente rigettato la domanda sul presupposto che, per riportare la sentenza, “l’appellante non ha fornito elementi per provare che l’apporto nell’impresa fornito dalla figlia non poteva essere sostituito attraverso l’assunzione di personale dipendente”, così commettendo, secondo la tesi difensiva, un evidente errore di diritto in quanto avrebbe confuso l’attività dell’imprenditore (quale quella svolta dalla figlia deceduta) con quella di un lavoratore dipendente. Secondo la mamma della vittima, i giudici territoriali non avrebbero considerato che l’art. 230 bis c.c. che disciplina l’impresa familiare al comma 4 chiarisce che il diritto di partecipazione all’impresa familiare è intrasferibile, per cui non si comprenderebbe come il giudice di appello abbia potuto ritenere fungibile il ruolo dell’imprenditore con quello di un qualsiasi lavoratore dipendente, soprattutto nell’ambito di una impresa familiare, caratterizzata come è noto, dalla presenza nell’azienda di persone legate da vincoli familiari e che hanno, quindi, un’attitudine lavorativa assolutamente diversa in termini di impegno, dedizione e interesse personale.

Con il secondo motivo la ricorrente si doleva del fatto che la Corte di merito avesse ritenuto irrilevanti le prove per testi perché non avrebbero indicato l’impossibilità o l’estrema difficoltà di sostituire l’apporto alla gestione amministrativa e contabile dato dalla figlia all’impresa familiare, attiva nel settore della riparazione e montaggio di apparecchiature, tale da rendere impossibile la prosecuzione dell’attività. La madre sottolineava che dall’ingresso della figlia quale socia nell’impresa vi era stato un incremento del 2000% del fatturato, di cui pure la Corte d’appello dava atto, pertanto la ricorrente riteneva contraddittoria la decisione dei giudici di non ammettere i mezzi di prova sulla perdita derivata per poi concludere che fosse mancata la prova del nesso causale tra la morte e la riduzione del reddito d’impresa.

La madre insisteva quindi sul fatto che a essere venuta meno non era una comune dipendente ma la socia al 49% della società di famiglia, che dava apporto con il suo lavoro al sostentamento della famiglia la quale, per le plurime competenze gestionali che aveva assunto all’interno dell’impresa, era da ritenersi insostituibile in quanto la società era cessata dopo l’evento luttuoso. In definitiva, nella sentenza vi sarebbe stato un vizio motivazionale sul punto del rigetto delle prove per testi in quanto erroneamente ritenute irrilevanti sotto entrambi i profili.

 

La riduzione del reddito di impresa a causa del decesso

Infine, la ricorrente censurava il fatto che la Corte di merito avesse inteso la domanda come tesa a provare l’assoluta impossibilità a proseguire l’attività dell’impresa, mentre essa avrebbe dovuto intendersi quale richiesta di ristoro per la riduzione del reddito di impresa a causa del decesso della figlia.

La Suprema Corte parte proprio dalla trattazione di quest’ultima doglianza e la reputa fondata e sufficiente per desumere un vizio motivazionale della sentenza nell’interpretare la domanda. Nell’atto di appello, chiarisce la Suprema Corte, “si precisa che con il primo giudizio introdotto era stato chiesto il risarcimento dei danni patrimoniali e non, a titolo di danno patrimoniale per la perdita degli introiti che la vittima avrebbe destinato alla famiglia contribuendo al bilancio familiare”. Inoltre, si riferiva che era stata indicata la somma a titolo di risarcimento per i maggiori introiti che la ricorrente avrebbe potuto percepire, in qualità di socia di maggioranza dell’impresa, se l’altra socia avesse proseguito la propria attività lavorativa all’interno dell’impresa di famiglia, deducendo che si trattava della medesima domanda che, nel primo giudizio, era stata accolta a titolo di danno da perdita di reddito nella minore misura di 100mila euro, per quanto dichiarata inammissibile in sede di impugnazione, in quanto tardiva.

La domanda proposta nel presente giudizio ricalca la causa petendi della prima dichiarata inammissibile in termini di lucro cessante (perdita di reddito), a cui si sarebbe aggiunta anche quella collegata al danno emergente (perdita di continuità aziendale e chiusura definitiva dell’attività) – proseguono gli Ermellini – Sebbene come deduzione di violazione dell’art. 112 il motivo sia mal formulato, tuttavia deve ritenersi che esso meriti accoglimento là dove in esso traspare una denuncia di vizio motivazionale”.

 

Non era stata considerata la domanda di lucro cessante

La rilevazione ed interpretazione del contenuto della domanda, normalmente riservata al giudice di merito – rammentano i giudici del Palazzaccio – è, infatti, sindacabile: ove ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; qualora comporti un vizio del ragionamento logico decisorio, eventualità in cui, se l’inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del “petitum”, potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere prospettato come vizio di nullità processuale ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; quando si traduca in un errore che coinvolge la “qualificazione giuridica” dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un “fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo”, ipotesi nella quale la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di “error in judicando”, in base all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., o al vizio di “error facti”, nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.

Pertanto, il fatto che il giudice abbia considerato solo una parte della domanda della ricorrente, “tesa a dimostrare il carattere indispensabile e insostituibile della socia d’opera e la conseguente perdita della continuità aziendale”, ma non anche la perdita patrimoniale ( lucro cessante) “che è derivata all’altra socia in termini di mancato apporto di reddito nell’impresa familiare nell’immediato periodo post mortem, rende evidente il vizio motivazionale in cui è incorso il giudice sotto il profilo del vizio di “error facti”, con riferimento alla motivazione resa e nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., essendo stato omesso un fatto nel qualificare i contorni della domanda.

A fronte dell’accoglimento del terzo motivo, il primo e il secondo sono rimasti pertanto assorbiti “perché diretti – conclude la Cassazione – a criticare una sentenza che ha pronunciato sulla base di una interpretazione della domanda attinta da vizio di motivazione.

Il giudizio sulla rilevanza delle prove costituende, difatti, è stato svolto in relazione solo al danno da cessazione dell’attività d’impresa e non anche da contrazione reddituale in danno del socio di maggioranza, che è quello che è stato ugualmente chiesto e non considerato; pertanto, le prove avrebbero dovuto essere valutate in riferimento al petitum dedotto”.

Ergo, sentenza cassata con rinvio alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Incidenti da Circolazione Stradale

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