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Nella recente sentenza n. 18567/2018 la Cassazione ha fatto chiarezza su un aspetto importante dell’organizzazione ospedaliera e dei rapporti con i pazienti, ossia su chi sia il soggetto responsabile della conservazione delle cartella sanitarie.

La vicenda riguardava il decesso di un uomo per le complicanze e una grave infezione insorte in seguito ad un intervento di innesto di cinque by-pass. Il Tribunale di Roma condannò in primo grado la struttura e due medici a risarcire i familiari della vittima. La prima non appellò la sentenza, che invece venne impugnata dai due medici condannati in primo grado, i quali contestavano tra l’altro come il giudice di prime cure non avesse disposto alcuna consulenza tecnica d’ufficio e non avesse attribuito alcuna percentuale di responsabilità nel tragico evento all’anestesista.

Il giudice d’appello confermava che la causa principale del decesso era da individuarsi in una infezione nosocomiale, attribuendo dunque le responsabilità in prevalenza alla clinica (in misura dell’80 per cento), ma aggiungeva anche che neppure i medici erano esenti da colpe, anestesista compreso, ascrivendo a ciascuno dei tre (dieci per cento, cinque per cento e cinque per cento) una percentuale di responsabilità. Conclusioni a cui il collegio peritale nominato ad hoc pervenne riuscendo a colmare in buona parte la lacuna dovuta alla perdita della cartella clinica, di cui nel 2013 la struttura sanitaria aveva denunciato lo smarrimento, attraverso il recupero dei rilievi eseguiti precedentemente in sede di accertamento tecnico preventivo. E concludendo che le carenze e le omissioni al riguardo non potevano ripercuotersi a danno del paziente in quanto si trattava di documentazione che è obbligo del medico e della struttura compilare e conservare.

Uno dei medici, tuttavia, ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza d’Appello, lamentando tra l’altro come la mancanza della cartella clinica integrale avesse impedito un accertamento esauriente e dolendosi del fatto che la compilazione della cartella sanitaria, di competenza del medico, fosse stata “confusa” con la sua conservazione, spettante invece all’ospedale.

Alla fine la Cassazione nella sostanza ha riconosciuto la bontà delle conclusioni della Corte d’Appello, confermando la condanna del medico, ma la circostanza le ha dato modo di fare chiarezza sulla questione della documentazione medica e a chi competa cosa.

Deve preliminarmente puntualizzarsi, con correzione sul punto della motivazione (della sentenza d’Appello, ndr) – recita la sentenza -, che è ben vero che altro sia l’obbligo di compilazione della cartella clinica, certamente gravante anche sui medici, altro sia, invece, l’obbligo di conservazione della cartella stessa. Infatti tale obbligo di conservazione non può ridondare a carico del medico in termini assoluti. Ai sensi dell’art. 7 del D.P.R. 128/1969, per tutta la durata del ricovero, responsabile della tenuta e conservazione della cartella clinica è il medico (in particolare, il responsabile dell’unità operativa dov’è ricoverato il paziente). Questi però esaurisce il proprio obbligo di provvedere, oltre che alla compilazione, alla conservazione della cartella, nel momento in cui la consegna all’archivio centrale, momento a partire dal quale la responsabilità per omessa conservazione della cartella si trasferisce in capo alla struttura sanitaria, e quindi alla direzione sanitaria”.

Dunque, la Cassazione asserisce che “il principio di vicinanza della prova, fondato sull’obbligo di regolare e completa tenuta della cartella, le cui omissioni non possono andare a danno del paziente, non può operare in pregiudizio del medico per la successiva fase di conservazione, dal momento in cui l’obbligo si trasferisce alla struttura sanitaria, l’omessa conservazione è imputabile esclusivamente ad essa. La violazione dell’obbligo di conservazione non può riverberarsi direttamente sul medico determinando una inversione dell’onere probatorio”.

Anzi, la Suprema Corte rileva come gli stessi medici, in caso di smarrimento della cartella, rischino di essere pregiudicati dell’impossibilità di documentare le attività che erano state regolarmente annotate su di essa e possono trovarsi quindi in una posizione simmetrica a quella del paziente.

Nella sentenza, la Cassazione ha anche colto l’occasione per ribadire i principi che regolano l’obbligo di conservazione della cartella sanitaria, ovverosia: fino a che non sarà completato il processo di digitalizzazione, essa andrà conservata in luoghi appropriati, non soggetti ad alterazioni climatiche e non accessibili da estranei; l’obbligo di conservazione della cartella è illimitato nel tempo, perché le stesse rappresentano un atto ufficiale.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Malasanità

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