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La compagnia di assicurazione in mora colpevole nei confronti del danneggiato, come qualsiasi altro debitore inadempiente, va incontro ai relativi effetti e deve pagare fino all’ultimo gli interessi dovuti, anche se la cifra superi il massimale della polizza, per il semplice fatto che la mora stessa è una sua responsabilità. Con un’ordinanza esemplare, la n. 4668/22 depositata il 14 febbraio 2022, la Cassazione ha censurato e “sanzionato” con decisione un modus operandi purtroppo frequente delle imprese assicurative, quello cioè di aggrapparsi ad ogni pretesto possibile pur di non pagare i risarcimenti o di rimandare le liquidazioni il più in là possibile.

Un automobilista, rimasto tetraplegico dopo un incidente, cita l’associazione di controparte

La vicenda. Il 24 aprile 2009 un automobilista era rimasto coinvolto con la sua vettura in un grave incidente con un altro veicolo assicurato da Generali, riportando la frattura di due vertebre, con lesione midollare e conseguente tetraplegia.

Nel 2013 l’uomo, con la moglie e i due figli, aveva citato in giudizio, dinanzi al Tribunale di Alessandria, la compagnia di assicurazione e il conducente del mezzo di controparte chiedendone la condanna al risarcimento dei gravi danni patiti. Generali si era costituita e aveva eccepito l’incapienza del massimale, in considerazione del fatto che in conseguenza del sinistro erano rimaste ferite altre tre persone, trasportate a bordo del veicolo del proprio assicurato, e che tra i creditori andava annoverato anche l’Inps, che aveva manifestato la volontà di surrogarsi.

Generali condannata in primo grado a risarcire il danneggiato

Con ordinanza del 20 giugno 2017 il Tribunale aveva accolto la domanda: il giudice aveva stimato il danno patito complessivamente da tutte le parti in un milione e 974 euro (al netto del concorso di colpa del 30 per cento attribuito alla vittima e degli acconti già pagati dalla Generali); e aveva ritenuto che questa avesse ritardato colpevolmente l’adempimento delle proprie obbligazioni, condannandola di conseguenza al pagamento della rivalutazione, degli interessi e delle spese di giudizio anche oltre il limite del massimale.

 

In appello “scontati” all’assicurazione gli interessi di mora in quanto eccedenti il massimale

La compagnia tuttavia aveva appellato la sentenza nella parte in cui era stata condannata a pagare gli interessi e la rivalutazione in eccedenza rispetto al massimale di polizza e con con sentenza del 14 febbraio 2019 la Corte d’appello di Torino ne aveva accolto il gravame, ritenendo insussistente una mora colpevole da parte dell’assicuratore: i giudici di secondo grado avevano altresì ridotto il quantum delle spese del giudizio di primo grado, compensando per un terzo le spese del giudizio di appello, e condannando Generali al pagamento dei restanti due terzi.

I giudici escludono una condotta inadempiente dell’assicuratore

La corte territoriale aveva ricostruito la vicenda accertando che una prima richiesta di risarcimento era arrivata alla compagnia il 20 ottobre 2009; il 20 ottobre 2011, due anni dopo, Generali, citata quale responsabile civile in sede penale, era stata condannata dal Giudice di pace di Arquata Scrivia al pagamento di una provvisionale di euro 60.000 in favore del danneggiato, pagamento che era avvenuto due mesi dopo. Un secondo acconto di 160mila euro era stato poi pagato dalla compagnia sei mesi dopo il primo pagamento e un terzo acconto di 300mila euro era stato corrisposto dall’assicuratore un anno dopo il pagamento del secondo.

Stabilita la “cronistoria” della vicenda risarcitoria la Corte d’appello aveva escluso che nella specie potesse ravvisarsi a carico della Generali una condotta inadempiente, sulla base di alcune considerazioni: i postumi permanenti patiti dall’automobilista si erano stabilizzati solo due anni dopo il sinistro, a marzo del 2011; la prima richiesta analitica di risarcimento inviata dal danneggiato alla società Generali, datata 9 marzo 2011, non sarebbe stata conforme alle prescrizioni dell’articolo 148 cod. ass.; “in ogni caso”, anche a voler ritenere produttiva di effetti la suddetta costituzione in mora, il termine legale di 90 giorni, entro il quale l’assicuratore avrebbe dovuto formulare la propria offerta alla vittima – osservava sempre la Corte d’appello -, era venuto a scadere il 13 giugno 2011, e l’assicuratore aveva pagato un primo acconto di 60.000 euro il 22 dicembre 2011; al momento dell’introduzione della lite la dinamica del sinistro non sarebbe stata affatto chiara, e legittimava il sospetto di un concorso di colpa della vittima; la sentenza penale di condanna della persona assicurata da Generali, nella parte in cui aveva ravvisato un concorso di colpa della vittima, era priva di efficacia vincolante in sede civile, e anch’essa giustificava di conseguenza il ritardo dell’assicuratore nell’adempimento della propria obbligazione; la liquidazione di alcune delle voci di danno lamentate dal danneggiato avrebbe richiesto un accertamento giudiziale (la durata del danno biologico temporaneo); per altre voci di danno, invece, il ritardo dell’assicuratore sarebbe stato giustificato dalla carenza degli elementi probatori forniti dal danneggiato (in particolare, per quanto concerneva la cosiddetta “personalizzazione” del risarcimento del danno non patrimoniale; il danno patrimoniale da incapacità lavorativa; il danno patrimoniale per spese di assistenza futura, “anche in considerazione della possibilità di erogazioni gratuite da parte della Regione, del Comune di residenza, del servizio sanitario nazionale“); non sarebbe stata inoltre dilatoria la scelta dell’assicuratore di chiamare in causa gli altri danneggiati e l’Inps, in considerazione del fatto che il credito risarcitorio dei primi non era prescritto, e che l’assicuratore sociale avrebbe potuto esercitare il diritto di surroga, che avrebbe inciso sul massimale residuo; la costituzione in mora inviata dalla vittima alla Generali non faceva menzione del diritto a prestazioni da parte di assicuratori sociali.  Sulla base di queste considerazioni la Corte d’appello aveva perciò concluso che la condotta della società Generali non fu “imprudente“, ma “prudenziale”.

 

Il macroleso ricorre per Cassazione sostenendo le ragioni della “mora colpevole

Il danneggiato a questo punto ha proposto ricorso per Cassazione censurando, sotto diversi profili, i vari argomenti posti dalla Corte d’appello a fondamento del giudizio di insussistenza d’una mora colpevole a carico dell’assicuratore del responsabile. Egli rilevava che la Corte d’appello aveva escluso che Generali fosse incorsa in mala gestio impropria, sul presupposto che avesse tenuto una condotta “prudenziale” alla luce della dinamica del sinistro, oggettivamente incerta: conclusione a cui era giunta dal rilievo che le due persone trasportate sul veicolo dell’assicurato, nell’immediatezza del fatto, avevano riferito che l’auto dov’erano seduti viaggiava alla velocità di 70 km/h, circostanza ritenuta dalla Corte d’appello teoricamente idonea ad escludere o ridurre la responsabilità dell’assicurato. Ma in questo nodo, lamentava il ricorrente, i giudici territoriali avevano trascurato di considerare da un lato che una tale velocità in prossimità d’un incrocio non era comunque prudenziale, e dall’altro lato che le persone trasportate sul veicolo dell’assicurato non avrebbero mai potuto deporre come testimoni in un ipotetico giudizio, in quanto incapaci ex articolo 246 c.p.c. E comunque, anche ad ammettere che l’assicurato fosse corresponsabile nella misura del 50%, e persino nell’ipotesi in cui fosse stato responsabile soltanto nella misura di un terzo, il massimale sarebbe stato comunque incapiente, a fronte di un danno grave come quello che aveva sofferto.

Inoltre, il ricorrente asseriva che la Corte d’appello avesse erroneamente ritenuto non dilatoria, e quindi non colposa, la scelta di Generali di ridiscutere in sede civile la misura della corresponsabilità della vittima, nonostante già il giudice penale l’avesse determinata nella misura del 30 per cento, all’esito di un giudizio cui la stessa società aveva partecipato nella veste di responsabile civile: il giudice civile avrebbe potuto sì ridiscutere le valutazioni di quello penale, ma soltanto in presenza di nuovi elementi, che nella specie non erano stati addotti da nessuno.

Ancora, il danneggiato si doleva del fatto che la Corte d’appello avesse ritenuto “non colposa” la resistenza opposta da Generali in sede civile, nonostante la compagnia al momento dell’introduzione del primo grado del giudizio civile già da tre anni fosse perfettamente a conoscenza del fatto che la vittima era affetta da tetraplegia, che comporta un’invalidità permanente non inferiore al 95%, e che il danno biologico per invalidità di questo tipo, in base alle tabelle del Tribunale di Milano, ammontava a circa 800mila euro, a fronte di un massimale assicurato era di soli 770.000 euro. Inoltre, censurava la sentenza impugnata nella parte in cui aveva giustificato la mora dell’assicuratore con il fatto che il danno patrimoniale sofferto dalla vittima appariva incerto “in considerazione della possibilità prestazioni gratuite da parte di Regione, Comune e Sistema sanitario nazionale“, trascurando di considerare che tali enti non offrono alcun tipo di assistenza continuativa domiciliare.

Infine, il ricorrente ha censurato la sentenza di secondo grado anche nella parte in cui aveva giustificato la mora dell’assicuratore con il fatto che l’Inps avesse manifestato la volontà di surrogarsi per gli importi pagati alla vittima a titolo di pensione di inabilità: l’articolo 142 del codice delle assicurazioni, infatti, avrebbe impedito all’Inps di surrogarsi nei diritti della vittima con pregiudizio del diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali, e nel caso di specie il solo danno biologico patito dalla vittima era di entità tale che avrebbe assorbito, da solo, l’intero massimale assicurato, con la conseguenza che Generali null’altro avrebbe dovuto versare all’assicuratore sociale che avesse inteso agire in surrogazione.

La Suprema Corte accoglie le doglianze e fa chiarezza sulla mora debendi

Ebbene, per la Suprema Corte i motivi sono fondati e con l’occasione gli Ermellini ritengono doveroso ricordare alcuni principi circa i presupposti e gli effetti della mora debendi dell’assicuratore della r.c.a. nei confronti della vittima d’un sinistro stradale. “L’assicuratore della r.c.a. – spiegano i giudici del Palazzaccio – è debitore in via diretta d’una obbligazione risarcitoria nei confronti del terzo danneggiato (art. 144 cod. ass.), la quale va adempiuta nel termine stabilito dalla legge, che nel caso di morte o lesioni personali causate da persona assicurata da una impresa assicuratrice in bonis è di 90 giorni decorrenti da quello in cui la vittima ha richiesto per iscritto il risarcimento (art. 148 cod. ass.)”.

 

Superato il termine di 90 giorni per liquidare il risarcimento dovuto, scatta la mora

Superato questo termine legale di adempimento, anche l’assicuratore della r.c.a. – come qualsiasi altro debitore inadempiente, “va incontro agli effetti della mora, a meno che non dimostri che il ritardo sia dovuto a causa a lui non imputabile, ex art. 1218 c.c.” prosegue la Cassazione, precisando poi che la mora dell’assicuratore della r.c.a. nei confronti del danneggiato “ha conseguenze diverse a seconda che il massimale sia capiente o incapiente. Sino a quando il massimale resti capiente rispetto al danno causato dall’assicurato al terzo, la mora dell’assicuratore è giuridicamente irrilevante, perché resta assorbita dalla mora dell’assicurato”.

Quest’ultimo infatti, in quanto autore di un fatto illecito, è tenuto al pagamento degli interessi (compensativi) di mora dal giorno dell’illecito, ai sensi dell’art. 1219, secondo comma, n. 1, c.c., interessi che costituiscono una delle voci del risarcimento spettante al terzo. L’assicuratore della r.c.a. ha l’obbligo di pagare al terzo danneggiato il medesimo risarcimento a quegli dovuto dall’assicurato: sia a titolo di capitale, sia a titolo di interessi. “Pertanto, gli interessi dovuti dall’assicurato al danneggiato ai sensi dell’art. 1219 c.c. sono ipso facto dovuti anche dall’assicuratore della r.c.a., e vanno calcolati col saggio e sul capitale stabiliti dalle Sezioni Unite di questa Corte con la nota sentenza 17.2.1995 n. 1712, e cioè ad un tasso equitativamente scelto dal giudice in considerazione delle peculiarità del caso, applicato sulla semi-somma tra credito espresso in moneta dell’epoca dell’illecito, e credito rivalutato all’epoca della decisione.

Dunque, sino al limite di capienza del massimale l’assicuratore in mora sarà tenuto a versare all’assicurato gli stessi interessi dovuti dall’assicurato, e cioè gli interessi compensativi computati secondo i criteri stabiliti da Sentenza n. 1712 del 17/02/1995 delle Sezioni unite. “Questa – prosegue la Suprema Corte – è la ragione per la quale si è affermato che l’obbligazione dell’assicuratore della r.c.a., la quale è una obbligazione di valuta, fino a quando non supera il massimale “si comporta” come una obbligazione di valore per quanto attiene le conseguenze della mora”.

 

Il caso in cui il massimale sia incipiente

Quando invece il danno causato dall’assicurato eccede il massimale, l’obbligazione dell’assicuratore nei confronti del terzo danneggiato ha per oggetto l’intero massimale. “Il massimale è una somma di denaro certa, liquida ed esigibile: l’obbligazione di pagarlo interamente è pertanto un’obbligazione di valuta – chiariscono gli Ermellini – In caso di mora, l’assicuratore sarà tenuto al pagamento degli interessi legali dal giorno della mora, ed eventualmente del maggior danno di cui all’art. 1224, secondo comma, c.c.. Quando l’assicuratore della r.c.a. sia tenuto al pagamento dell’intero massimale, e non adempia nei termini di legge, non può ovviamente più pretendere che le conseguenze della (sua) mora restino contenute nel limite del massimale. Quel limite, infatti, concerne una garanzia per fatto altrui, e cioè il risarcimento del danno causato dall’assicurato”.

Se la compagnia non risarcisce nei termini, la mora è colpa sua e pagherà oltre il massimale

“Ma se l’assicuratore  della r.c.a. – prosegue la Cassazione – debba versare alla vittima (od alle vittime: nulla cambia) l’intero massimale e non lo faccia nei termini di legge, tale ritardo sarà imputabile a lui, non al fatto dell’assicurato. Pertanto, in virtù del principio di auto-responsabilità (per effetto del quale ciascuno deve sopportare le conseguenze giuridiche delle proprie azioni od omissioni), l’assicuratore in mora nel pagamento dell’intero massimale sarà tenuto a sopportare gli effetti della mora stessa senza limiti d sorta. In questo caso infatti le conseguenze della mora scaturiscono dall’inadempimento dell’assicuratore, e non dall’illecito dell’assicurato”.

In altri termini, l’assicuratore che ritardi il pagamenti dell’intero massimale va incontro alle conseguenze cui si espone il debitore che non adempia una obbligazione di valuta. Egli dunque sarà tenuto al pagamento degli interessi di mora al saggio legale (art. 1224, primo comma, c.c.). Se poi il creditore lo chieda e lo dimostri, gli spetterà il risarcimento del “maggior danno” di cui all’art. 1224, comma secondo, c.c., che può essere ritenuto sussistente in via presuntiva dal giudice, salvo prova contraria da parte del debitore, in tutti i casi in cui nel tempo della mora il saggio di rendimento medio dei Bot di durata annuale sia stato superiore al saggio legale medio degli interessi, così come statuito dalle Sezioni Unite nel comporre i precedenti contrasti sull’interpretazione dell’art. 1224, comma secondo, c.c.

La mora debendi dell’assicuratore della r.c.a. nei confronti del terzo danneggiato è spesso designata nella prassi forense e giudiziaria come “mala gesto impropria”, ma “deve essere ben chiaro – sottolinea la Suprema Corte – che questa espressione è puramente convenzionale ed, essa sì, “impropria”. Infatti una “cattiva gestione” degli interessi altrui è concepibile unicamente nel rapporto tra assicurato ed assicuratore. Solo nell’ambito di questo rapporto, infatti, è ipotizzabile una condotta colposa consistente nella malaccorta gestione degli interessi altrui.

Per questa ragione nel rapporto tra assicurato ed assicuratore mora e mala gesto sono concetti non coincidenti: la mora è l’effetto dell’inadempimento d’una obbligazione di dare; la mala gestio è invece l’inadempimento di una obbligazione di fare (la cura degli interessi dell’assicurato). L’assicuratore che incorra nella mala gestio degli interessi dell’assicurato potrà essere tenuto al pagamento di somme eccedenti il massimale non solo a titolo di interessi, ma anche a titolo di capitale”: l’esempio di scuola formulato nell’ordinanza è quello dell’assicuratore che, rifiutando per colpa una vantaggiosa proposta transattiva avanzata dal danneggiato e contenuta nei limiti del massimale, finisca per lasciare l’assicurato, all’esito del giudizio, esposto alla pretesa del danneggiato per l’eccedenza del credito risarcitorio rispetto al limite del massimale.

Nel rapporto tra assicuratore della r.c.a. e danneggiato, per contro, l’assicuratore assume la veste di debitore, non di mandatario o gestore di affari altrui. “Pertanto, la mora dell’assicuratore nell’ambito di tale rapporto non potrà mai comportare altre conseguenze che quelle di cui all’art. 1224 c.c., e cioè l’obbligo di pagamento di somme eccedenti il massimale a titolo di interessi o maggior danno ex art. 1224 c.c., ma mai a titolo di capitale”.

 

Il termine tassativo dei 90 giorni

Detto di quando l’assicuratore della r.c.a. vada considerato in mora, e di quanto la mora accresca l’obbligazione dell’assicuratore, i giudici del Palazzaccio ricordano i principi circa il come l’assicuratore possa liberarsi degli effetti della mora. Il fatto stesso che la legge conceda 90 giorni all’assicuratore per determinarsi in ordine al risarcimento da corrispondere al danneggiato “è sintomatico della tipizzazione del tempo considerato necessario perché siano compiuti gli accertamenti del caso. Ciò vuol dire che il legislatore, con valutazione ex ante, ha ritenuto che tre mesi sono di norma sufficienti a chi esercita una impresa di assicurazioni per accertare le responsabilità, stimare il danno e risarcire la vittima. Se quel termine viene superato, diventa onere dell’assicuratore vincere la presunzione di colpa posta a suo carico dall’art. 1218 c.c.. La presunzione può essere vinta dal debitore dimostrando la causa non imputabile, e cioè l’assenza di colpa, che va giudicata col criterio di cui all’art. 1176 c.c., ossia valutando se il debitore abbia o non abbia tenuto una condotta conforme a quella che avrebbe tenuto, nelle medesime circostanza, un debitore di media diligenza”.

La compagnia di assicurazione è un debitore “qualificato” dalla veste professionale

L’assicuratore della r.c.a. non è un debitore qualsiasi: “è un debitore qualificato dalla veste professionale. Egli dunque deve adempiere la proprie obbligazioni non già con la diligenza esigibile da qualunque persona di media avvedutezza, ma con la acuta diligentia esigibile da chiunque eserciti professionalmente un’attività economica, ai sensi dell’art. 1176, comma secondo, c.c.. tale articolo impone pertanto di considerare “negligente” l’assicuratore della r.c.a. che ignori o trascuri di rispettare le norme di legge in base alle quali accertare la responsabilità del proprio assicurato; ignori o trascuri di rispettare le norme giuridiche in base alle quali individuare i danneggiati; ignori o trascuri di rispettare le norme giuridiche in base alle quali accertare e stimare il danno causato dal proprio assicurato.

Alla luce dei principi su esposti, la sentenza impugnata, secondo la Suprema Corte, “ha falsamente applicato gli artt. 1176, 1218 e 1224 c.c., per avere accertato in facto una condotta della società Generali deviante dalle norme giuridiche cui l’assicuratore diligente dovrebbe informare la propria condotta, ed avere nondimeno ritenuto incolpevole l’inadempimento relativo della società Generali”.

Generali pagò il primo acconto solo nove mesi dopo la stabilizzazione dei postumi

Ciascuna delle otto affermazioni con cui i giudici territoriali avevano giustificato l’esclusione della mora debendi, infatti, poggia su affermazioni giuridicamente non corrette, come chiariscono con estrema puntualità gli Ermellini.. “Non conforme a diritto, innanzitutto, fu l’affermazione secondo cui Generali non avrebbe dovuto subire gli effetti della mora, poiché i postumi permanenti patiti dalla vittima si stabilizzarono soltanto due anni dopo il sinistro, a marzo del 2011. Il giudice di merito infatti accertò in punto di fatto che il primo pagamento da parte della Generali avvenne nove mesi dopo la stabilizzazione dei postumi (il 22.12.2011), e per di più solo perché la Generali fu condannata in sede penale al pagamento d’una provvisionale. La Corte d’appello ha dunque accertato in fatto un adempimento tardivo e parziale successivo alla stabilizzazione dei postumi, ed escluso allo stesso tempo gli effetti della mora: di qui la violazione degli artt. 1218 c.c. e 145 cod. ass. 8.2”.

Non conforme a diritto anche l’affermazione secondo cui la Generali non avrebbe dovuto subire gli effetti della mora, poiché la prima richiesta analitica di risarcimento inviatale dal danneggiato (datata 9.3.2011) non era conforme alle prescrizioni dell’articolo 148 cod. ass. “In primo luogo non fu conforme a diritto poiché l’art. 148, comma 5, cod. ass., impone all’assicuratore, il quale abbia ricevuto una richiesta di risarcimento incompleta, l’onere di richiedere al danneggiato entro trenta giorni dalla ricezione della richiesta di risarcimento le necessarie integrazioni. Che quello previsto dalla legge sia un vero e proprio onere, e non una mera facoltà, si desume sia dalla fissazione di un termine di 30 giorni per chiedere l’integrazione (una facoltà assoggettata ad un termine, infatti, cesserebbe di essere una facoltà), sia dalla previsione secondo cui, se l’integrazione viene fornita, lo spatium deliberandi concesso all’assicuratore per formulare l’offerta “decorre nuovamente” dalla ricezione dei documenti integrativi: previsione la quale rivela che, se l’integrazione non venisse richiesta, nessuna sospensione potrebbe verificarsi. La Corte d’appello ha dunque accertato in fatto la violazione da parte dell’assicuratore dell’onere di domandare l’integrazione documentale, ed escluso allo stesso tempo gli effetti della mora: di qui la violazione degli artt. 1218 e 148 cod. ass.. 8.3.

Non conforme a diritto, ancora, anche l’affermazione secondo cui la Generali non avrebbe dovuto subire gli effetti della mora, poiché “in ogni caso”, anche a voler ritenere produttiva di effetti la costituzione in mora pervenuta alla compagnia il 15.3.2011, il termine legale 90 giorni, entro il quale l’assicuratore avrebbe dovuto formulare la propria offerta alla vittima, venne a scadere il 13 giugno 2011, e l’assicuratore pagò un primo acconto di 60.000 euro il 22 dicembre 2011. “Con la suddetta affermazione la Corte d’appello mostra di ritenere che per l’assicuratore della r.c.a., una volta scaduto lo spatium deliberandi di 90 giorni fissato dall’art. 148, comma 2, cod. ass., possa ancora discutersi se il ritardo sia stato o non sia stato rilevante. Non è questo, tuttavia, il sistema della legge. Una volta scaduto il termine di 90 giorni di cui all’art. 148, comma 2, cod. ass., l’assicuratore della r.c.a. è costituito in mora, e non è più mestieri a discorrere se abbia adempiuto la propria obbligazione molto tempo o poco tempo dopo quella scadenza. La durata del ritardo inciderà sulla misura degli interessi di mora, non certo sulla esistenza di quest’ultima. Aggiungasi che il pagamento di un acconto di euro 60.000, a fronte di un danno che ascendeva a più del decuplo dell’acconto, avrebbe potuto semmai escludere gli effetti della mora per la somma pagata in acconto, ma non per tutto il debito gravante sull’assicuratore”.

 

In caso di dinamica incerta, l’assicuratore diligente deve offrire almeno la metà, non zero

Non conforme a diritto anche l’affermazione secondo cui Generali non avrebbe dovuto subire gli effetti della mora, poiché al momento dell’introduzione della lite la dinamica del sinistro non era affatto chiara, e legittimava il sospetto di un concorso di colpa della vittima. “La vittima d’un sinistro stradale, infatti, beneficia nei confronti del conducente del veicolo antagonista della presunzione di pari responsabilità di cui all’art. 2054, comma secondo, c.c.. Pertanto era proprio l’incertezza sulla dinamica del sinistro che avrebbe dovuto indurre qualsiasi assicuratore diligente, ai sensi dell’art. 1176, comma secondo, c.c., ad offrire quanto meno la metà del presumibile risarcimento. L’art. 2054, comma secondo, c.c., fu dettato infatti allo scopo di prevenire le liti, non di fomentarle, come invece avverrebbe se fosse consentito ad ogni debitore, dinanzi a sinistri stradali dalla dinamica di malagevole ricostruzione, pretendere di sottrarsi all’adempimento delle proprie obbligazioni, sino a che condotte e colpe non fossero accertate al di là di ogni ragionevole dubbio. La Corte d’appello ha dunque accertato in fatto una condotta dell’assicuratore difforme dal modello di diligenza di cui all’art. 1176, comma secondo, c.c., ed escluso allo stesso tempo gli effetti della mora: di qui la violazione degli artt. 1176 e 1218. 8.5.

 

La condanna penale dell’assicurato aggrava, non escluse, la mora colpevole dell’assicuratore

Errata quindi l’affermazione secondo cui la Generali non avrebbe dovuto subire gli effetti della mora poiché la sentenza penale di condanna della persona assicurata dalla società Generali, nella parte in cui aveva ravvisato un concorso di colpa della vittima, era priva di efficacia vincolante in sede civile, e anch’essa giustificava di conseguenza il ritardo dell’assicuratore nell’adempimento della propria obbligazione. “Secondo la Corte d’appello, dunque, l’assicuratore della r.c.a. il quale veda il proprio assicurato condannato in sede penale, con una sentenza nella cui motivazione si ravvisa un concorso di colpa della vittima, legittimamente rifiuta a quest’ultima qualsiasi pagamento, poiché l’accertamento del concorso di colpa non vincola il giudice civile, ed in sede civile l’assicuratore avrebbe dunque potuto “spuntare” un concorso di colpa maggiore a carico della vittima. Si tratta di una affermazione non condivisibile. La circostanza che l’assicurato era stato condannato in sede penale, e ciononostante l’assicuratore continuasse pervicacemente a rifiutare l’adempimento integrale delle proprie obbligazioni, avrebbe dovuto aggravare, invece di escludere, la mora colpevole dell’assicuratore.

 

La legge sulla Rc-auto mira alla tutela della vittima non all’eliminazione del rischio d’impresa

La mora colpevole dell’assicuratore della r.c.a. infatti non resta esclusa solo perché sussistano incertezze sull’apporto causale della vittima alla verificazione del sinistro, per due ragioni. La prima è che qualsiasi incertezza sul riparto delle colpe non esonera l’assicuratore dall’offrire quanto meno l’adempimento della metà del presumibile danno, ai sensi dell’art. 2054, comma secondo, c.c.. La seconda, generale ed assorbente, è che la renitenza dell’assicuratore della r.c.a. ad adempiere la propria obbligazione nei confronti del terzo danneggiato non può mai essere giustificata dal timore di non riuscire poi a recuperare le somme corrisposte al danneggiato in eccedenza rispetto al dovuto. Deve infatti essere ben chiaro che questo rischio rientra tra quelli d’impresa, e non può ridondare a carico della vittima, né dell’assicurato. Se così non fosse, l’assicuratore della r.c.a. sarebbe addirittura incentivato a ritardare il pagamento dinanzi a qualsiasi minima incertezza sulla dinamica del sinistro o sull’ammontare del danno, fidando sul fatto che il decorso del tempo renderà incapiente il massimale e gli risparmierà le conseguenze della mora. Ma una simile interpretazione mai potrebbe adottarsi, perché contraria alla ratio ed allo scopo dell’intera legislazione in materia di assicurazione della r.c.a., la quale consiste nella tutela della vittima, e non nell’eliminazione del rischio d’impresa, come ripetutamente affermato da questa Corte, dalla Corte costituzionale e dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea. La Corte d’appello ha dunque, su questo punto, adottato un’interpretazione della legge difforme dalla sua ratio, falsamente applicando gli artt. 1218 c.c., 651 c.p.p. e 148 cod. ass.”.

 

La compagnia ha il dovere di accertare i fatti e stimare i danni subiti chiesti dalla vittima

Non conforme a diritto inoltre anche l’affermazione secondo cui Generali non avrebbe dovuto subire gli effetti della mora poiché la liquidazione di alcune delle voci di danno lamentate da alla vittima richiedeva un accertamento giudiziale (la durata del danno biologico temporaneo); oppure perché per altre voci di danno, il ritardo dell’assicuratore era giustificato dalla carenza degli elementi probatori forniti dal danneggiato. “Secondo la Corte d’appello, l’assicuratore della r.c.a. evita gli effetti della mora se la vittima chieda il ristoro di danni che richiedano un’istruttoria. L’affermazione contiene due diversi errori di diritto. Il primo errore è consistito nella violazione dell’art. 1176 c.c.. L’assicuratore della r.c.a., infatti, ha il dovere – impostogli dall’art. 148 cod. ass., come già detto – di attivarsi per accertare i fatti e stimare i danni sulla base dei dati disponibili. Il rifiuto di risarcire un danno che la vittima abbia allegato ma non dimostrato potrà dirsi legittimo solo a posteriori, dopo avere esaminato se e quali accertamenti l’assicuratore abbia svolto, per accertare la fondatezza della pretesa di controparte. Nel caso di specie, per contro, la Corte d’appello non ha accertato in fatto alcuno sforzo diligente da parte della Generali per formulare l’offerta “congrua” cui era tenuta ai sensi dell’art. 148 cod. ass., e nondimeno ha escluso gli effetti della mora: di qui il primo errore di diritto.

Il secondo errore è consistito nell’escludere la mora dell’assicuratore in base al fatto che il danneggiato avesse avanzato pretese “generiche o indimostrate” nel proprio atto di citazione in giudizio. Ma alla data della citazione (2013) il sinistro era già avvenuto da quattro anni, e l’assicuratore era in mora già da due: qualsiasi genericità della citazione, pertanto, non poteva rendere “incolpevole”, ora per allora, la mora già maturata.

 

Ininfluente la posizione dell’Inps, così come l’eventuale diritto ad altre prestazioni sociali

Non conforme a diritto, inoltre, l’affermazione secondo cui la Generali non avrebbe dovuto subire gli effetti della mora poiché non fu dilatoria la scelta dell’assicuratore di chiamare in causa gli altri danneggiati e l’Inps, in considerazione del fatto che il credito risarcitorio dei primi non era prescritto, e l’assicuratore sociale avrebbe potuto esercitare il diritto di surroga, il quale avrebbe inciso sul massimale residuo. “Tale affermazione fu erronea perché giuridicamente ininfluente. Infatti, al momento in cui la Generali fu convenuta in giudizio, e formulò la sua richiesta di chiamata in causa di altri soggetti, essa era già in mora (almeno) da due anni. 8

Idem l’affermazione secondo cui la Generali non avrebbe dovuto subire gli effetti della mora poiché la vittima non aveva riferito di avere diritto a prestazioni da parte di assicuratori sociali, con la conseguenza che la compagnia “non poteva affatto valutare compiutamente la richiesta di risarcimento del danno”. In questo caso l’errore di diritto commesso dalla Corte d’appello è stato addirittura quadruplice.

“In primo luogo, che la vittima abbia o non abbia diritto a prestazioni da parte dell’assicuratore sociale, ciò non può mai evitare gli effetti della mora per l’assicuratore della r.c.a. che non adempia la propria obbligazione nei 90 giorni di cui all’art. 148 cod. ass.. Infatti l’art. 142, comma 2, cod. ass. impone all’assicuratore l’onere di domandare alla vittima se abbia diritto a prestazioni da parte di assicuratori sociali: se riceve risposta negativa, può pagare il risarcimento integralmente; se riceve risposta affermativa ha l’obbligo di accantonare l’importo presumibilmente destinato alla surrogazione dell’assicuratore sociale. Ma nell’uno, come nell’altro caso, nessuna dilazione la legge accorda all’assicuratore della r.c.a. per ritardare l’adempimento.

Di conseguenza (ed è stato il secondo errore commesso dalla Corte d’appello), “l’eventuale reticenza o falsità della vittima circa il diritto a prestazioni da parte dell’assicuratore sociale è irrilevante per l’assicuratore, in quanto quella reticenza potrebbe comportare al massimo la responsabilità della vittima nei confronti dell’assicuratore sociale per il pregiudizio al diritto di surrogazione, ma giammai l’obbligo dell’assicuratore della r.c.a. di un doppio pagamento. Pertanto, quand’anche la vittima fosse reticente o mendace sul punto, ciò non giustifica alcun ritardo da parte dell’assicuratore della r.c.a”.

Il terzo errore della Corte d’appello è consistito “nell’addossare alla vittima le conseguenze dell’omessa dichiarazione circa il diritto a prestazioni da parte di assicuratori sociali. Infatti anche quando la vittima invii all’assicuratore della r.c.a. una richiesta di risarcimento priva della suddetta dichiarazione, resta pur sempre onere dell’assicuratore richiedergliela (art. 142, comma 2, cod. ass.), circostanza mai accertata dalla Corte d’appello.

Il quarto errore, infine, è consistito nel “trascurare di considerare che – secondo quanto accertato dalla stessa Corte d’appello – nel caso di specie l’unico ente che aveva manifestato la volontà di surrogazione fu l’Inps, non l’Inail. Ma l’ines non eroga nessuna indennità destinata a ristorare il danno non patrimoniale agli invalidi civili (art. 1 e 2, 1. 12.6.1984 n. 222), e poiché nel caso di specie il solo danno non patrimoniale avrebbe verosimilmente assorbito l’intero massimale, nessuna surrogazione sarebbe stata possibile, e nessun onere di accantonamento aveva l’assicuratore”.

 

I Principi di diritto

Il ricorso pertanto è stato pienamente accolto in base a questi principi di diritto. “L‘assicuratore della r.ca. è in mora, nei confronti della vittima, una volta spirato il termine di cui all’art. 148, commi n 1 e 2, cod ass.. L’assicuratore in mora è tenuto: a) se il debito è inferiore al massimale al pagamento degli stessi interessi compensativi dovuti dal responsabile ex art 1219 cc, calcolati al saggio e sul montante stabiliti da Cass. S. U. 1712/95; b) se il debito è superiore al massimale al pagamento degli interessi di mora sul massimale stesso, ex art 1224, primi o secondo comma, cc. L’assicuratore della r.ca., quando sia scaduto lo spatium deliberandi di cui all’alt 148 cod. ass., può evitare gli effetti della mura o attraverso l’offerta reale o secondo gli usi; o attraverso il deposito liberatorio di ai all’art 140 cod ass.; oppure dimostrando che l’inadempimento è dipeso da causa non imputabile. Né la difficoltosa ricostruzione della dinamica del sinistro né l’intervento di assicuratori sociali; né la mancanza di prova di alcune delle voci di danno richieste dalla vittima costituiscono, di per sé, cause di esclusione della mora dell’assicuratore”.

La condanna di Generali

La Cassazione ha addirittura deciso direttamente nel merito la causa condannando Generali al pagamento in favore del macroleso e della moglie e dei due figli che devono prendersene cura, a ciascuno di loro, degli interessi di mora al saggio legale, decorrenti dal 13 giugno 2011, previa imputazione del valore nominale degli acconti agli interessi maturati alla data di pagamento dell’acconto, e per la parte residua al capitale, in tutto una somma di circa quarantamila euro. Oltre alla refezione al danneggiato e ai suoi familiari di spese legali per oltre 16mila euro.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Incidenti da Circolazione Stradale

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