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In presenza di più titolari della posizione di garanzia, come nel caso di lavoro somministrato, ciascun garante risulta per intero destinatario dell’obbligo di impedire l’evento fino a che non si esaurisca il rapporto che ha originato la singola posizione di garanzia.

Quindi, risponde appieno dell’infortunio anche il legale rappresentante della ditta somministratrice. Con l’importante sentenza n. 425/22 depositata l’11 gennaio 2022 la Cassazione, quarta sezione Penale, ha affrontato un tema di notevole interesse giurisprudenziale che ha per oggetto la ripartizione delle responsabilità, nei confronti del lavoratore, fra l’azienda utilizzatrice e la società di somministrazione in caso di lavoro somministrato.

Presidente della coop di somministrazione lavoro condannato per l’infortunio a un dipendente

Confermando il pronunciamento di primo grado del Tribunale di Mantova del 2017, con sentenza del 2020 la Corte d’appello di Brescia aveva confermato l’affermazione di responsabilità penale nei confronti del presidente del consiglio di amministrazione di una società cooperativa e preposto in materia di prevenzione infortuni, in relazione al reato di lesioni personali gravi, con l’aggravante di essere stato commesso in violazione delle norme antinfortunistiche, ai danni di un lavoratore, fatto accaduto a Pegognaga nel 2014. La vittima era un facchino addetto al carico e scarico merci dal camion e dipendente della sua società, la quale aveva stipulato con il macello di Pegognaga un contratto di appalto che aveva ad oggetto il carico e scarico di mezzene e carni confezionate.

Non aveva elaborato misure idonee a evitare le cadute dai camion durante il carico e scarico

Al datore di lavoro si contestava un comportamento colposo per negligenza imprudenza e imperizia e inosservanza delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, e in particolare di non aver elaborato procedure operative nel documento di valutazione rischi per le operazioni di caduta del personale dai cassoni del camion durante le operazioni di carico e scarico, limitandosi a prevedere generici obblighi di informazione dei dipendenti di tenersi a una distanza di sicurezza, misura del tutto inidonea a prevenire il rischio in quanto il carico della merce avveniva in uno spazio angusto di mezzo metro.

Infatti il dipendente, mentre caricava le mezzene su un autoarticolato frigo di una ditta di spedizioni carne e cercava di agganciare il materiale alle guidovie, si era avvicinato con i piedi ai bordi del camion, si era sporto e aveva infilato il piede destro nello spazio esistente tra il cassone sopraelevato per più di un metro e mezzo e la paratia che doveva impedire ai fumi di scarico di entrare nel macello, che non si trovava allineata al piano dell’autocarro, in questo modo scivolando, cadendo a terra e procurandosi la frattura scomposta della tibia: una lesione giudicata guaribile in un tempo superiore a quaranta giorni, con una invalidità permanente stimata nel 14% e conseguenti periodi di inabilità totale e parziale.

Entrambe le sentenze di merito avevano chiarito che la fessura esistente tra il bordo dell’automezzo e la paratia metallica era una condizione lavorativa ben nota al datore di lavoro e concretizzava il rischio di caduta durante le operazioni di carico, mentre nel documento di valutazione erano state previste, come detto, misure del tutto insufficienti,  e generiche inidonee a prevenire e a garantire la sicurezza dei lavoratori.

 

L’imputato ricorre per Cassazione e scarica ogni responsabilità sulla ditta “utilizzatrice”

Il legale rappresentante della società tuttavia ha proposto ricorso anche per Cassazione e tra le varie doglianze addotte quella che qui preme principalmente riguarda per l’appunto il rapporto tra la sua cooperativa e l’azienda proprietaria del macello, che a suo dire i giudici territoriali avrebbero erroneamente qualificato come contratto di appalto, mentre di fatto il lavoratore infortunato era un somministrato alla società che gestiva il macello con propri uomini e attrezzature, tanto che le operazioni del facchino avvenivano sotto il costante controllo del personale di quest’ultima azienda che esercitava il potere direttivo e disciplinare. Dunque, la tesi difensiva era che si trattava di un contratto di somministrazione e, conseguentemente, tutti gli obblighi di prevenzione gravavano sull’utilizzatore. La indisponibilità del luogo di lavoro, il macello, da parte sua in quanto mero “somministratore”, avrebbe quindi inciso anche sull’efficacia degli obblighi ad esso correlati.

La Suprema Corte rigetta tutte le doglianze e fa chiarezza

Ma la Cassazione ha rigettato questa come tutte le altre doglianze prendendo l’occasione per fare chiarezza su questa complessa materia. Gli Ermellini premettono che il sistema di sicurezza aziendale si configura come “procedimento di programmazione della prevenzione globale dei rischi” e che tale logica “riguarda anche la gestione dei rischi in caso di affidamento dei lavori a singole imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi all’interno dell’azienda o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell’ambito del ciclo produttivo dell’azienda medesima”.

 

Se i titolari di posizione di garanzia sono più d’uno, tutti hanno l’obbligo di impedire incidenti

Dunque, se ci sono più titolari della posizione di garanzia, come nel caso di specie, “ciascun garante risulta per intero destinatario dell’obbligo di impedire l’evento fino a che non si esaurisca il rapporto che ha originato la singola posizione di garanzia”.

E quando l’obbligo di impedire un evento ricade su più persone che debbano intervenire o intervengano in momenti diversi, “il nesso di causalità tra la condotta omissiva o commissiva del titolare di una posizione di garanzia non viene meno per effetto del successivo mancato intervento da parte di altro soggetto, parimenti destinatario dell’obbligo di impedire l’evento, configurandosi un concorso di cause ex art. 41 comma primo cod. pen

Nel “rischio interferenziale” conta l’effetto che origina dal rapporto tra i soggetti coinvolti

La Cassazione aggiunge poi che, “ai fini della attività di valutazione di coordinamento e cooperazione connessa al rischio interferenziale, secondo quanto previsto dall’art. 7 D.Igs 626/1994 (ora art. 26 D.Igs 81/08), occorre avere riguardo inoltre, non alla qualificazione civilistica attribuita al rapporto tra le imprese che cooperano tra loro – contratto di appalto, d’opera o di somministrazione -, ma all’effetto che da tale rapporto origina, vale a dire alla concreta interferenza e coesistenza – nella specie operazioni di scarico e carico della carne – di più organizzazioni, che genera la posizione di garanzia dei datori di lavoro ai quali fanno capo le distinte organizzazioni. Tale coinvolgimento, funzionale nella procedura di lavoro di diversi plessi organizzativi, non esclude poi la necessità di adottare le misure previste per i diversi rischi specifici, a meno che non risultino inefficaci o dannose ai fini della sicurezza dell’ambiente di lavoro”.

 

La prevenzione si basa sulla “programmazione globale” del sistema di sicurezza aziendale

Di più, gli obblighi di “cooperazione e coordinamento gravanti a norma dell’art. 26 D.Igs 81/08 sui datori di lavoro” rappresentano, secondo i giudici del Palazzaccio, la  cifra” della loro posizione di garanzia e “sono rilevanti anche per delimitare l’ambito della loro responsabilità. L’assolvimento di tali obblighi risponde all’esigenza antinfortunistica – avvertita come primaria anche dal legislatore europeo – di gestire preventivamente tale categoria di rischio.

La vigente tutela penale dell’integrità psicofisica dei lavoratori risente, infatti, della scelta di fondo del legislatore di attribuire rilievo dirimente al concetto di prevenzione dei rischi connessi all’attività lavorativa e di ritenere che la prevenzione si debba basare sulla programmazione globale del sistema di sicurezza aziendale, nonché su un modello collaborativo e informativo di gestione del rischio da attività lavorativa, dovendosi così ricomprendere nell’ambito delle omissioni penalmente rilevanti tutti quei comportamenti dai quali sia derivata una carente programmazione dei rischi.

La identificazione dell’area di rischio e dei soggetti deputati alla sua gestione serve ad arginare la potenziale espansività della causalità condizionalistica, consentendo di imputare il fatto solo a coloro che erano chiamati a gestire il rischio concretizzatosi“.

Per l’aggravante della violazione di norme infortunistiche non è necessaria la colpa specifica

Gli Ermellini sottolineano quindi come, in materia di reati colposi derivanti da infortunio sul lavoro, per la configurabilità dell’aggravante speciale della violazione delle norme antinfortunistiche, rilevante per la procedibilità di ufficio in caso di lesioni gravi e gravissime e per il raddoppio della prescrizione ai sensi dell’art. 157 cod. pen, “non occorre che sia integrata la violazione di norme specifiche dettate per prevenire infortuni sul lavoro, giacché per l’addebito di colpa specifica è sufficiente che l’evento dannoso si sia verificato a causa della violazione del citato art. 2087, che fa carico all’imprenditore di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori. Infatti, il datore di lavoro e gli altri soggetti investiti della posizione di garanzia devono in proposito ispirare la loro condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza, per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza”.

 

Quando sussiste la posizione di garanzia

In sintesi, dunque, riassumono i giudici del Palazzaccio, sussiste una posizione di garanzia a condizione che: “un bene giuridico necessiti di protezione, poiché il titolare da solo non è in grado di proteggerlo; una fonte giuridica – anche negoziale – abbia la finalità di tutelarlo; tale obbligo gravi su una o più persone specificamente individuate sulla base di un’investitura formale o l’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante; queste ultime siano dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, ovvero siano ad esse riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che l’evento dannoso sia cagionato”.

Con la conseguenza che, in caso di lesioni e di omicidio colposi, perché possa ravvisarsi l’ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, “è necessario e sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l’evento dannoso un legame causale, il quale ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile all’inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli artt. 40 e 41 cod. pen”.

 

Il rischio dei caduta dai camion era ben noto anche alla società di somministrazione lavoro

Scendendo ad esaminare il caso di specie, la Cassazione rileva come nel novembre 2013 il macello avesse dato in appalto alla società cooperativa di cui era legale rappresentante l’imputato le attività per la movimentazione e lavori di carico e scarico di carni bovine suine e delle relative mezzene.

E come, in sede di sopralluogo congiunto, forse stato elaborato un documento di valutazione dei rischi dell’appaltatrice in cui era stato considerato proprio il rischio di caduta dal piano del veicolo sul quale veniva effettuato il caricamento delle mezzene, la cui altezza era di circa 1 metro e mezzo, ma le uniche misure di sicurezza che erano state previste erano, come già detto, la informativa al lavoratore del rischi e l’invito, sostanzialmente impraticabile, a tenersi lontano dal bordo, senza considerare le concrete condizioni e modalità lavorative, in particolare la necessità per il lavoratore, durante le fasi finali del caricamento del cassone, di trovarsi ad operare in uno spazio angusto in prossimità del bordo del cassone, con il rischio concreto di caduta stante la presenza di una fessura tra il bordo dell’autocarro e la paratia metallica frapposta ad esso che rendeva prevedibile ed evitabile il rischio specifico.

Mancato il coordinamento tra la committente, l’appaltatrice della manodopera e il camionista

Era pertanto concretamene prevedibile che si potesse verificare un incidente, come poi si è verificato, anche a causa del mancato coordinamento tra l’attività della committente, l’autotrasportatore e i facchini della società dell’imputato, proprio a causa della mancata messa a punto di una procedura di carico e scarico della carne sicura ed adeguata all’ambiente di lavoro” afferma la Suprema Corte, rammentando inoltre che “l’interruzione del nesso di condizionamento, a causa del comportamento imprudente dei lavoratori, secondo i principi giuridici enucleati dalla dottrina e dalla giurisprudenza, deriva dalla condotta del lavoratore che si collochi al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Tale comportamento è “interruttivo” non  perché “eccezionale” ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare”.

 

Nessun comportamento “eccentrico” o abnorme del facchino infortunato

L’imprenditore infatti aveva anche eccepito sulla condotta del facchino che a suo dire sarebbe stata l’unica causa dell’infortunio, ma i giudici del Palazzaccio non mancano anche di ricordare come “in tema di rapporto di causalità, ai sensi dell’art.41, terzo comma, cod. pen., il nesso di causalità non resta escluso dal fatto altrui, cioè quando l’evento è dovuto anche all’imprudenza di un terzo o dello stesso offeso, poiché il fatto umano, involontario o volontario, realizza anch’esso un fattore causale, al pari degli altri fattori accidentali o naturali, a meno che tale comportamento non sia qualificabile come concausa qualificata, capace cioè di assumere di per sé rilievo dirimente nella spiegazione del processo causale e nella determinazione dell’evento”.

Un’eventualità, quest’ultima, che però è stata “correttamente”  scartata, secondo la Cassazione, dai giudici di merito, i quali avevano escluso che potesse discutersi non solo di responsabilità, ma anche solo di corresponsabilità del lavoratore per l’infortunio, “quando, come nel caso di specie, il sistema della sicurezza approntato presenti gravi criticità. Le disposizioni antinfortunistiche perseguono, infatti, il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, onde l’area di rischio da gestire include il rispetto della normativa prevenzionale che si impone ai lavoratori, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l’instaurarsi, da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza, di prassi di lavoro non corrette e per tale ragione foriere di pericoli”.

Infine, la Cassazione evidenzia anche che in tema di prevenzione degli infortuni, se il datore di lavoro è una “persona giuridica”, destinatario delle norme è il legale rappresentante dell’ente imprenditore, “quale persona fisica attraverso la quale il soggetto collettivo agisce nel campo delle relazioni intersoggettive, così che la sua responsabilità penale, in assenza di valida delega, è indipendente dallo svolgimento o meno di mansioni tecniche, attesa la sua qualità di preposto alla gestione societaria”.

Il legale rappresentante, cioè, non può esimersi da responsabilità adducendo una propria incapacità tecnica, come aveva tentato dei fare l’imputato, “in quanto tale condizione lo obbliga al conferimento a terzi dei compiti in materia antinfortunistica. In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, destinatario della normativa antinfortunistica in un’impresa strutturata come persona giuridica, quale è nel caso di specie, è il suo legale rappresentante, persona fisica attraverso cui l’ente ha agito e agisce nel campo delle relazioni intersoggettive”. Ne consegue che “la sua responsabilità penale, ad eccezione delle ipotesi di valida delega, deriva proprio dalla sua qualità di preposto alla gestione societaria ed è indipendente dallo svolgimento, o meno, di mansioni tecniche”. Ergo, ricorso respinto e condanna confermata.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Infortuni sul Lavoro

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