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Se una persona, vittima di un sinistro, riporta lesioni permanenti che gli impediscono anche di svolgere il suo lavoro, essa ha il sacrosanto diritto di vedersi risarcito il cosiddetto danno da perdita o da ridotta capacità lavorativa, ma come va quantificato questo pregiudizio?

Preziosa, al riguardo, l’ordinanza n. 14241/23 depositata il 23 maggio 2023 nella quale la Cassazione chiarisce che, a meno che la capacità lavorativa non sia del tutto azzerata, la somma da liquidare non può essere calcolata sulla base dell’intera somma che il danneggiato avrebbe percepito nel corso della sue restante vita lavorativa tramite il lavoro che non può più svolgere, ma vanno considerate anche le sue restanti possibilità, per quanto ridotte, di trovare in futuro un’altra occupazione.

 

Motociclista risarcito dai giudici d’appello dei danni patiti in seguito a un grave incidente

Il contenzioso di cui si è occupata la Cassazione era stato avviato da un motociclista rimasto vittima di un grave incidente stradale da cui aveva riportato pesanti postumi permanenti con inevitabili ricadute anche sulla sua capacità lavorativa specifica.

Il danneggiato aveva citato in causa la conducente della vettura che, uscendo da un luogo privato e mancando la precedenza, lo aveva travolto, oltre che la compagnia di assicurazione del veicolo, chiedendo il risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali patiti. In primo grado il giudice di Pace di Napoli aveva rigettato completamente la domanda non ritenendo compatibili le lesioni riportate dalla vittima con la dinamica del sinistro da questi riferita, ma la Corte d’Appello partenopea, con sentenza del 2020, aveva ribaltato la decisione, dichiarando l’esclusiva responsabilità dell’incidente in capo all’automobilista e condannando la sua assicurazione a liquidare al centauro la somma di 192mila euro, oltre interessi e rivalutazione.

A questo punto è stata l’assicurazione a ricorrere per Cassazione contestando sia la dinamica dell’incidente come ricostruita dai giudici di secondo grado, e quindi la responsabilità riconosciuta al proprio assicurato, sia l’entità del risarcimento stabilito, motivi di doglianza entrambi rigettati dalla Suprema Corte.

Quello che qui preme è invece il ricorso incidentale proposto dal danneggiato, che a sua volta aveva contestato la quantificazione operata dalla Corte d’Appello del danno alla capacità lavorativa specifica subito: l’uomo, che faceva l’autotrasportatore, a causa del sinistro, aveva rimediato tra l’altro la perdita di mobilità della caviglia destra, che è continuamente sollecitata quando si guida un mezzo pesante, e aveva perso il lavoro.

I giudici territoriali avevano pertanto ritenuto provata e documentata l’esistenza del danno patrimoniale, consistente in una riduzione della capacità lavorativa specifica, così come avevano convenuto sul fatto che la lesione riportata  fosse destinata a rendere significativamente più difficoltosa la possibilità di reperire e svolgere lo stesso tipo di lavoro o un lavoro equivalente, in misura non corrispondente al grado di invalidità permanente, determinato nel 10 per cento, ma nel ben più alto grado del 50 per cento.

 

Il ricorrente chiede il riconoscimento di tutte le somme che avrebbe percepito dal lavoro perso

Secondo il ricorrente, tuttavia, la Corte d’Appello, dopo aver posto a base del calcolo la sua retribuzione mensile al momento dei fatti, arrotondata in aumento, gli avrebbe riconosciuto erroneamente un danno patrimoniale pari al reddito moltiplicato per il coefficiente di capitalizzazione e per la perdita della capacità lavorativa specifica in percentuale, sottratto lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa.

Il camionista sosteneva che doveva essergli riconosciuto l’intero importo, senza operare l’abbattimento pari alla percentuale di perdita della capacità lavorativa specifica. E richiamava a proprio favore i principi espressi da una pregressa sentenza della Cassazione, la n. 28071 del 2020, in cui si dice che “se il danneggiato dimostra di aver perso a causa di un sinistro un preesistente rapporto di lavoro, il danno patrimoniale da lucro cessante va liquidato tenendo conto dell’intero importo delle retribuzioni che egli avrebbe percepito e che ha perso, e non in base alla sola percentuale di perdita della capacità lavorativa specifica, a meno che lo stesso responsabile non alleghi e dimostri che il danneggiato abbia reperito una nuova occupazione retribuita, ovvero che avrebbe potuto farlo e non lo ha fatto per propria colpa: solo in questi casi la quantificazione del danno patrimoniale potrà essere legittimamente effettuata nella misura della differenza”.

In conclusione, il ricorrente incidentale asseriva che il danno patrimoniale subìto gli doveva essere liquidato in misura pari all’intera sua perdita reddituale conseguente a quella del reddito da rapporto di lavoro preesistente, non avendone conseguito nessun altro in sostituzione, perché quello era l’intero ed effettivo pregiudizio subito in concreto, essendo il rapporto lavorativo cessato a causa del suo infortunio, che non gli avrebbe più consentito lo svolgimento di un lavoro al quale era avviato, quello di autotrasportatore, che presuppone una completa padronanza fisica.

Ma per la Cassazione anche il ricorso incidentale del danneggiato è infondato. Gli Ermellini premettono che è “conforme alla legge e ad una integrale riparazione per equivalente del danno patrimoniale effettivamente subito, il criterio di quantificazione del danno patrimoniale seguito dalla corte d’appello, che ha adottato come base di calcolo il reddito effettivamente percepito dalla vittima al momento dell’incidente, su base annua, fondato sulla retribuzione mensile, arrotondata in eccesso tenendo conto di incrementi futuri, moltiplicandolo per il coefficiente di capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali corrispondente all’età della vittima al momento del sinistro e per la percentuale di riduzione della capacità lavorativa specifica nella misura che verrà accertata, e decurtando dall’importo così conseguito lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa”.

Un criterio, di quantificazione, quello adottato dalla Corte territoriale, aggiungono i giudici del Palazzaccio, conforme a quello enunciato dalla stessa Cassazione con la sentenza n. 16913 del 2019 (“Il danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa specifica, in applicazione del principio dell’integralità del risarcimento sancito dall’artt. 1223 c.c., deve essere liquidato moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell’intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativi o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall’altro, coefficienti di capitalizzazione di maggiore affidamento, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano”, per citarla), al cui orientamento anche in questo caso gli Ermellini intendono dare seguito, essendo “idoneo ad una integrale liquidazione del danno priva di duplicazioni risarcitorie”.

 

Il danno non può essere pari alle entrare patrimoniali cessate per l’intera vita

La Cassazione puntualizza poi che “anche se, in ragione del sinistro, la vittima perde, come nella specie, un rapporto lavorativo retribuito già in atto, il reddito effettivamente percepito dalla vittima e perduto in ragione del sinistro costituisce solo la base di calcolo. Il suo danno patrimoniale non può considerarsi infatti pari, per l’intera vita, alle entrate patrimoniali cessate per un lavoro che non sarà più tenuto a svolgere, ma va considerata, ai fini di una corretta quantificazione per equivalente della perdita patrimoniale effettivamente subita, la perdurante, sebbene ridotta, capacità del danneggiato di procurarsi e mantenere, seppur con accresciute difficoltà, il cui peso deve essere adeguatamente considerato, un’altra attività lavorativa retribuita”.

Va tenuta in considerazione anche la sia pur ridotta possibilità di trovare un altro impiego

Ragion per cui, “legittimamente, la quantificazione del danno patrimoniale non può essere pari alle intere entrate percipiende che il danneggiato ha perso per la cessazione dell’impiego conseguente all’incidente, ma quella somma deve essere abbattuta in considerazione della sua mantenuta, sebbene ridotta, possibilità di reperire un nuovo impiego”. Solo laddove la capacità lavorativa specifica della persona fosse ridotta a zero, allora “il danno patrimoniale subito sarebbe da parametrare all’intero reddito percepito al momento del sinistro, e provato nella sua entità, perché è esclusa ogni possibilità di recuperare una nuova posizione lavorativa”.

L’intero reddito perduto costituisce solo la base di calcolo

In definitiva, va a concludere la Suprema Corte, che pertanto ha confermato in toto la sentenza di appello, “ai fini di una liquidazione del danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa specifica per equivalente che sia effettivamente volta a reintegrare il danneggiato nella situazione preesistente, il reddito perduto costituisce la base di calcolo ma il danno deve essere parametrato alla misura della sua perdurante possibilità di procurarsi in futuro quegli stessi introiti o altri idonei a soddisfare le sue esigenze”. Diversamente infatti, osserva la Cassazione, laddove cioè il danno fosse parametrato alla perdita degli emolumenti perduti senza considerare la mantenuta, benché ridotta, capacità di guadagno del soggetto, “il danneggiato verrebbe a lucrare indebitamente una somma pari alle intere entrate precedenti, perdute, senza più dover svolgere alcuna attività lavorativa, venendo a conseguire un indebito vantaggio.

Pertanto, quand’anche il soggetto che abbia riportato un’invalidità permanente atta a determinare una riduzione della sua capacità lavorativa specifica svolgesse un lavoro retribuito al momento del sinistro e perda questa attività in conseguenza del sinistro, non ricevendone più gli emolumenti, il danno patrimoniale percepito non è pari all’intera portata di quegli emolumenti (calcolata secondo i criteri espressi da Cass. n. 16913 del 2019, dai quali non si è discostata la Corte d’appello) ma a quella somma, capitalizzata, proporzionalmente ridotta in virtù della percentuale di incapacità lavorativa specifica”.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Incidenti da Circolazione Stradale

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