Il caso è frequentissimo, una persona che si fa male a causa di un cane. Ma che succede se l’animale non è di estranei bensì del figlio? E, soprattutto, la polizza per la responsabilità civile verso terzi che il proprietario abbia provvidenzialmente stipulato copre anche i danni causati a un familiare?
A tutte queste domande dà una risposta eloquente l’ordinanza n. 25849/21, depositata il 23 settembre 2021, della sesta sezione civile della Cassazione, che tuttavia ribadisce soprattutto un principio fondamentale a tutela dell’assicurato: in caso di clausole poco chiare e interpretabili in più modi, come nello specifico, e come purtroppo capita sovente nei contratti – i giudici hanno persino dovuto effettuare l’analisi sintattica -, esse vanno sempre lette contro il proponente, cioè la compagnia, colpevole di non aver proposto un testo chiaro e comprensibile.
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Una donna ferita dal cane del figlio chiama in causa l’assicurazione per essere risarcita
Una donna aveva patito lesioni a causa del cane del figlio che, svincolatosi dal guinzaglio, l’aveva fatta cadere malamente a terra. L’assicurazione con cui il proprietario aveva “coperto” il suo quattro zampe per eventuali danni arrecati a terzi, Helvetia Compagnia Svizzera d’Assicurazioni, si era tuttavia rifiutata di risarcire la danneggiata. Pertanto quest’ultima aveva citato in giudizio il figlio che a sua volta aveva chiamato a garanzia la compagnia per essere manlevato, ma quest’ultima si era costituita ribadendo il suo diniego ed eccependo che il danno causato ai genitori era escluso dalla copertura assicurativa.
In primo grado il Tribunale aveva accolto la domanda, ritenendo che l’esclusione dei genitori valesse solo laddove fossero conviventi del figlio, così interpretando l’art. 24 delle condizioni di polizza, mentre al contrario la Corte d’appello di Roma, presso la quale Helvetia aveva appellato la decisione di prime cure, con sentenza del 2018 aveva reputato che i genitori non fossero da considerare come terzi danneggiati, a prescindere dalla loro convivenza con il danneggiante o meno, ossia che, in base a quella clausola, i danni causati ai genitori, fossero, per l’appunto, sempre e comunque esclusi dalla copertura, rigettando perciò l’istanza risarcitoria.
La polizza per la responsabilità civile verso terzi copre anche i danni causati a un familiare?
La donna ha quindi impugnato quest’ultima sentenza per cassazione, denunciano violazione degli articoli 1362, 1363, 1370 e ss. del codice civile. Secondo la ricorrente, la Corte territoriale avrebbe disatteso il criterio letterale di interpretazione, in base al quale avrebbe dovuto ricavarsi che l’esclusione riguardava i parenti, tutti, senza eccezione, purché conviventi, e che dunque la copertura operava se il danno era causato ai parenti, genericamente intesi, dunque anche genitori non conviventi.
Secondo la ricorrente, inoltre, la decisione impugnata aveva disatteso le regole di interpretazione del contratto, previste dagli articoli 1362 e ss. c.c. in quanto la Corte d’appello si sarebbe fermata ad una interpretazione letterale, senza andare oltre, ossia senza tenere conto della “ratio” della clausola, che era quella di escludere la copertura quando il rischio di danno era maggiore, attesa, per l’appunto, la convivenza.
Infine, la donna imputava ai giudici di secondo grado di aver disatteso la ratio dell’articolo 1370 c.c., in quanto l’interpretazione della clausola doveva quanto meno ritenersi dubbia, e fare pertanto propendere per un significato sfavorevole al predisponente, cioè la compagnia.
Ebbene, per la Suprema Corte il motivo è fondato. Gli Ermellini, tanto è “contorto” il testo”, si concentrano subito sulla clausola in questione la quale, nell’individuare i soggetti che non sono consertati terzi, ossia quelli il cui danno non è coperto dalla polizza, così li elenca, testualmente: “il coniuge, i genitori, i figli delle persone di cui al punto a), gli altri parenti ed affini con loro conviventi, nonché gli addetti ai servizi domestici“.
La Cassazione ammette che “la tesi per la quale la convivenza è rilevante solo quanto agli altri parenti, ed agli affini, con esclusione quindi dei genitori che non sono mai terzi, convivano o meno con il danneggiante, tesi basata sulla struttura sintattica della clausola, ossia che fa leva sul fatto che il termine “conviventi” è posto subito dopo “gli altri parenti ed affini, e dunque relativo solo a questi ultimi, potrebbe avere dalla sua una qualche ragione; meglio, la sola ragione letterale”.
Ma i giudici del Palazzaccio rilevano che si può sostenere che anche la tesi opposta ha delle ragioni a suo favore, “vuoi perché non è detto che la collocazione sintattica del termine “conviventi” sia decisivo, vuoi per la ratio dell’esclusione che potrebbe ben rinvenirsi nella convivenza, per via del fatto che quest’ultima rende più frequente il rischio di danni”. E che questa “ratio” possa sostenersi, osserva la Suprema Corte, “lo si ricava dalla esclusione, tra i danneggiati coperti da assicurazione, dei domestici, esclusione che è dovuta non già al loro rapporto di parentela con il danneggiante, ma, per l’appunto, alla convivenza con quest’ultimo“.
Se il contratto è poco chiaro, in dubbio va sempre tutelato l’assicurato
Nell’interpretazione del contratto di assicurazione, “che va redatto in modo chiaro e comprensibile” ammoniscono gli Ermellini, “il giudice non può attribuire a clausole polisenso uno specifico significato, pur teoricamente non incompatibile con la loro lettera, senza prima ricorrere all’ausilio di tutti gli altri criteri di ermeneutica previsti dagli artt. 1362 e ss. c.c., e, in particolare, a quello dell’interpretazione contro il predisponente, di cui all’art. 1370 c.c.”
L’articolo 1370 c.c., ricorda la Cassazione, ha una precisa ragione: “se la clausola è predisposta da un solo contraente, la scarsa chiarezza del testo va imputata a costui, non avendo l’altro dato alcun contributo alla redazione. Si può dire che tutela l’affidamento del contraente che non ha redatto, ossia il significato che legittimamente costui si aspettava dalla clausola. Resta evidente che l’interpretazione contra stipulatorem presuppone il dubbio: ossia presuppone che, in base alle regole di interpretazione correnti (testuali, sistematiche, ecc.), siano ricavabili almeno due significati possibili; che è ciò che rende il significato non univoco e giustifica la tutela del contraente cui la clausola è “imposta”.
Ed è per l’appunto quanto è emerso nel caso specifico: da un lato, infatti, riassumono i giudici del Palazzaccio, “può dirsi che la convivenza, essendo riferita sintatticamente ai soli “altri parenti ed agli affini” è rilevante solo per costoro (argomento testuale), per altro verso però, questa tesi può essere disattesa dallo stesso argomento testuale osservando come il riferimento alla convivenza, pur posto alla fine della elencazione dei soggetti esclusi, ben può riferirsi a tutti, e non solo a quelli per ultimi menzionati, e che comunque la norma esclude dai danneggiati assicurati i domestici, e non può che farlo in ragione della loro convivenza con il danneggiante, in quanto li considera “addetti ai servizi domestici“.
Infine, conclude la Cassazione adducendo un altro elemento che fa pendere la bilancia dalla parte dell’assicurato, conta “l’argomento pragmatico, ossia quello attento alle conseguenze (tra le quali anche quelle di tipo logico): se il requisito della convivenza fosse riferito ai soli affini (oltre che agli altri parenti) il danno al fratello non connivente sarebbe coperto, quello al genitore non convivente no, e non è chiaro perché. Dunque, può dirsi che il testo della clausola non è univoco, e non lo è per il modo in cui è stata redatta, non già per la oggettiva difficoltà di senso”.
Il ricorso è stato pertanto accolto, la sentenza impugnata cassata con rinvio alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, per le spese.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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