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Non è “abnorme” la condotta del lavoratore che, reagendo d’istinto all’improvvisa rottura dell’impianto frenante, si getta dal trattore in corsa riportando gravi lesioni: legittima dunque la condanna del suo datore di lavoro per avergli ha fornito un mezzo insicuro.

E’ particolarmente interessante per approfondire il tema del cosiddetto “rischio elettivo” la sentenza n. 40337/22 depositata dalla quarta sezione della Cassazione il 25 ottobre 2022.

 

Bracciante si getta dal trattore a cui si sono rotti i freni

Un bracciante era stato incaricato dal suo datore di lavoro di svolgere alcune lavorazioni su un trattore ma a seguito della rottura dei freni il lavoratore si era gettato dal mezzo, riportando lesioni personali consistite nella frattura esposta alla gamba sinistra per una prognosi pesante di oltre 40 giorni: infortunio occorso a Castellina in Chianti, località Montelupo, nel Senese, il 10 dicembre 2016.

Il suo titolare era stato quindi indagato per il reato di lesioni colpose gravi con l’aggravante di essere stato commesso in violazione delle norme antinfortunistiche, in particolare dell’art.71, comma 1, del Testo Unico, per non aver messo a disposizione del proprio dipendente attrezzature conformi e idonee ai fini della salute e sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere.

Il Tribunale di Siena, con sentenza del 2019, tuttavia, aveva assolto l’imputato con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, ritenendo che non vi fosse la prova certa del nesso causale in quanto l’evento lesivo si sarebbe determinato in forza di una dinamica che prescindeva dall’omessa installazione di un sistema di ancoraggio del conducente al sedile del trattore. Partendo dal presupposto (errato) che il pubblico ministero avesse strutturato l’ipotesi accusatoria su tale omissione e sul rilievo che il trattore fosse munito del dispositivo di protezione contro il ribaltamento ma che non fossero state installate le cinture di sicurezza, il giudice aveva considerato che, in quel particolare frangente e in quelle condizioni emotive, non potesse essere escluso che il lavoratore si sarebbe comunque liberato del sistema di ancoraggio.

 

La Corte d’appello condanna l’imprenditore per mancato controllo del sistema frenante

La Corte di appello di Firenze, investita del giudizio di impugnazione dalla pubblica accusa, con sentenza del 2021, aveva invece totalmente riformato la sentenza assolutoria, dichiarando l’imputato responsabile del delitto di cui all’art. 590, comma 3. I giudici di secondo grado avevano rilevato che l’ipotesi accusatoria prevedeva in realtà una condotta omissiva più ampia di quella esaminata dal primo giudice, inclusiva dell’omessa adozione da parte del datore di lavoro di una corretta procedura di controllo e manutenzione del sistema frenante, sottolineando come fosse incontestata la circostanza che durante l’uso del mezzo i freni, inizialmente funzionanti, si fossero improvvisamente guastati nonostante il terreno fosse solo lievemente in pendenza, e rimarcando come la rottura dei freni fosse all’origine del processo causale dal quale erano derivate le lesioni.

L’imputato ricorre per Cassazione battendo sulla condotta “imprevedibile” del suo dipendente

A questo punto è stato l’imprenditore agricolo a proporre ricorso per Cassazione obiettando, al riguardo del ruolo centrale avuto nell’incidente dall’omessa manutenzione del sistema di frenata del mezzo agricolo, di aver adempiuto a tutti gli obblighi di manutenzione, come risultava da un documento prodotto in atti e datato 28 giugno 2016, nel quale sarebbe stata certificata l’intervenuta manutenzione del mezzo agricolo e uno specifico intervento sul sistema frenante, più precisamente il cambio dei dischi dei freni, a riprova che il guasto sarebbe avvenuto in maniera del tutto improvvisa e imprevedibile.

Il ricorrente ha poi osservato che l’installazione dei dispositivi di ancoraggio del conducente al sedile sarebbe stata del tutto inconferente rispetto al rischio verificatosi in concreto, lamentando infine il fatto che la Corte territoriale avrebbe del tutto trascurato la valutazione della condotta del tutto imprevedibile del lavoratore, che si sarebbe dovuta considerare tale da interrompere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento: dipendente che peraltro aveva frequentato uno specifico corso formativo per la guida di mezzi come il trattore e aveva una certa esperienza, per cui, secondo il datore, ci si sarebbe potuti e dovuti attendere da lui una reazione diversa, come ad esempio quella di spegnimento del trattore, sufficiente per tali veicoli a fermare il mezzo, a maggior ragione in terreni pianeggianti.

 

Il datore di lavoro deve fornire attrezzature sicure

Ma la Suprema Corte ha rigettato tutte le doglianze, sia per ragioni formali (nel ricorso non era allegato il documento che avrebbe comprovato l’avvenuta manutenzione dei freni sei mesi prima dell’infortunio) ma sia anche per questioni “sostanziali”.

I giudici del Palazzaccio si soffermano sul punto della sentenza impugnata in cui la Corte territoriale aveva ritenuto accertato che il sistema frenante del trattore al quale era stato addetto il lavoratore si era rivelato inidoneo. E spiegano “Le misure prevenzionistiche dettate dall’art.71 d. Igs. n.81/2008 con riguardo alle attrezzature di lavoro impongono, tra l’altro, che il datore di lavoro prenda le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro siano oggetto di idonea manutenzione al fine di garantire nel tempo la permanenza dei requisiti di sicurezza di cui all’articolo 70, che a sua volta rimanda alle regole generali raccolte nell’Allegato V, ove si fa riferimento ai dispositivi di comando che consentano la frenatura e l’arresto delle attrezzature di lavoro mobili semoventi”.

Nel caso concreto, come si è visto, i giudici di secondo grado avevano ritenuto che l’improvvisa rottura del sistema frenante avesse rivelato un difetto di manutenzione e controllo da parte del datore di lavoro sul quale si era innestata la condotta del lavoratore, considerata come prevedibile gesto di reazione alla situazione di pericolo.

 

Quando la condotta del lavoratore è “abnorme”: alcuni esempi

Al riguardo, la Cassazione richiama alcuni principi chiave espressi dalla giurisprudenza di legittimità in tema di condotta cosiddetta “abnorme” del lavoratore, da valutare in applicazione dell’art. 41, comma 2, cod. pen., a norma del quale, com’è noto, il nesso eziologico può essere interrotto da una causa sopravvenuta che si presenti come atipica, estranea alle normali e prevedibili linee di sviluppo della serie causale attribuibile all’agente e costituisca, quindi, un fattore eccezionale.

Gli Ermellini citano quindi alcune sentenze della Suprema Corte nelle quali si era ritenuto che il comportamento del lavoratore avesse interrotto il nesso di causalità tra l’azione o l’omissione del datore di lavoro e l’evento, in primis il caso di un dipendente di un albergo in una località termale che, terminato il turno di lavoro, si era diretto verso l’auto parcheggiata nei pressi e, per guadagnare tempo, invece di percorrere la strada normale, si era introdotto abusivamente in un’area di pertinenza di un attiguo albergo ed aveva percorso un marciapiede posto a margine di una vasca con fango termale alla temperatura di circa 80 gradi. L’area era protetta da ringhiere metalliche ed il passaggio era sbarrato da due catenelle, mentre non esisteva alcuna protezione all’interno dell’area stessa, sui passaggi che fiancheggiavano le vasche. In prossimità dell’area si trovavano segnali di pericolo. L’uomo, che conosceva molto bene la zona, aveva scavalcato le catenelle e si era incamminato lungo i marciapiedi, ma aveva messo un piede in fallo cadendo nella vasca e perdendovi la vita. La pronunzia assolutoria, confermata dal giudice di legittimità, spiega la Cassazione, era motivata dal fatto che il lavoratore conosceva benissimo i luoghi ed era quindi ben consapevole dei pericoli derivanti dal fango ad alta temperatura, dai vapori che ne emanavano e dal buio.

Si cita poi il caso di un operaio addetto a una pala meccanica che si era improvvisamente bloccata: l’addetto era sceso dal mezzo senza spegnere il motore e, sdraiatosi sotto di essa tra i cingoli, aveva sbloccato a mano la frizione difettosa cosicché il veicolo, muovendosi, lo aveva travolto. La Suprema Corte, in tale occasione, aveva affermato il principio che la responsabilità dell’imprenditore deve essere esclusa allorché l’infortunio si sia verificato a causa di una condotta del lavoratore inopinabile ed esorbitante dal procedimento di lavoro cui era addetto, oppure a causa di inosservanza di precise disposizioni antinfortunistiche.

Ancora, viene riportata la vicenda di un lavoratore, addetto ad una macchina dotata di fresatrice, che aveva avuto il compito di introdurvi manualmente degli elementi di legno, il quale aveva inserito la mano all’interno dell’apparato, eseguendo una manovra tanto spontanea quanto imprudente, per rimuovere residui di lavorazione, subendone l’amputazione. L’imputazione riguardava proprio il reato di cui all’art. 590 cod. pen. in relazione all’art. 68 d.P.R. n.547/55 per la mancata adozione di idonei dispositivi di sicurezza. La Corte d’appello aveva affermato la responsabilità del titolare della ditta e del preposto ai lavori, ma la Cassazione aveva invece annullato la sentenza, con rinvio ai giudice di merito perché verificassero se l’incongruo intervento del lavoratore fosse stato richiesto da particolari esigenze tecniche, osservando che l’operazione compiuta era rigorosamente vietata, che la macchina era dotata di idoneo strumento aspiratore, che il lavoratore era perfettamente consapevole che la fresatrice fosse in movimento e che qualunque accorgimento tecnico volto ad obbligare l’operatore a tenere ambo le mani impegnate per far andare la macchina avrebbe dovuto fare i conti con il tipo di lavorazione, nel quale la manualità dell’operatore era totalmente assorbita nell’introduzione del legno nell’apparato.

 

Per essere tale il comportamento deve essere anche esorbitante dal procedimento di lavoro

I giudici del Palazzaccio aggiungono poi che la condotta colposa del lavoratore “è stata, in altra pronuncia, ritenuta idonea ad escludere la responsabilità dell’imprenditore, dei dirigenti e dei preposti in quanto esorbitante dal procedimento di lavoro al quale egli era addetto oppure concretantesi nella inosservanza di precise norme antinfortunistiche. In alcune sentenze il principio è stato ribadito, e si è altresì sottolineato che la condotta esorbitante deve essere incompatibile con il sistema di lavorazione o, pur rientrandovi, deve consistere in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro, tali non essendo i comportamenti tipici del lavoratore abituato al lavoro di routine; in altre si è sostenuto che l‘inopinabilità può essere desunta o dall’estraneità al processo produttivo o alle mansioni attribuite, o dal carattere del tutto anomalo della condotta del lavoratore”.

Se, dunque, da un lato, è stato posto l’accento sulle mansioni del lavoratore, quale criterio idoneo a discriminare il comportamento anomalo da quello che non lo è, “nel concetto di esorbitanza – prosegue la Suprema Corte – si è ritenuto di includere anche l’inosservanza di precise norme antinfortunistiche, ovvero la condotta del lavoratore contraria a precise direttive organizzative ricevute, a condizione che l’infortunio non risulti determinato da assenza o inidoneità delle misure di sicurezza adottate dal datore di lavoro”.

In sintesi, dunque si può cogliere nella giurisprudenza di legittimità la tendenza a considerare “interruttiva del nesso di condizionamento la condotta abnorme del lavoratore non solo quando essa si collochi in qualche modo al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso ma anche quando, pur collocandosi nell’area di rischio, sia esorbitante dalle precise direttive ricevute e, in sostanza, consapevolmente idonea a neutralizzare i presidi antinfortunistici posti in essere dal datore di lavoro; ciò nondimeno, quest’ultimo, dal canto suo, deve aver previsto il rischio e adottato le misure prevenzionistiche esigibili in relazione alle particolarità del lavoro”.

Applicando questi principi al caso concreto, secondo gli Ermellini la pronuncia impugnata risulta rispettosa del dettato dell’art.41, comma 2, cod. pen., “in particolare laddove i giudici di merito hanno ritenuto che il comportamento del lavoratore non fosse qualificabile come causa sopravvenuta sufficiente a determinare l’evento, essendo stato accertato che la manutenzione dell’attrezzatura semovente fornita al lavoratore si era rivelata carente”. Dunque, ricorso respinto e condanna confermata.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Infortuni sul Lavoro

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