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Non rileva che la colonscopia “fatale” fosse stata sollecitata da un collega, nel caso specifico peraltro il medico di famiglia.

In tema di colpa professionale medica, in caso di cooperazione multidisciplinare, anche se non svolta contestualmente, ove venga richiesto un esame invasivo, il medico specialista chiamato ad effettuarlo deve necessariamente e sempre valutare, oltre alla presenza di fattori che possano condizionare negativamente l’esame stesso, anche la bontà della scelta diagnostica operata dal medico richiedente in relazione alla sintomatologia lamentata dal paziente, in presenza o meno di elementi ed indagini precedenti che avvalorino il sospetto della malattia ipotizzata.

Lo ha chiarito la Cassazione, con l’interessante sentenza n. 30051/22 depositata il 29 luglio 2022 che ha definitivamente condannato per omicidio colposo il dottore protagonista della tragica vicenda.

Colonscopista condannato per omicidio colposo ai danni di un’anziana

La Corte di Appello di Venezia, con decisione del 2020, pronunciando sul gravame nel merito proposto dal medico imputato, aveva confermato la sentenza già emessa a suo carico dal Gup del Tribunale di Rovigo che, nel 2019, all’esito di giudizio abbreviato, lo aveva condannato, operata la riduzione per il rito prescelto, alla pena – condizionalmente sospesa e con la non menzione – di otto mesi di reclusione avendolo riconosciuto colpevole del reato, appunto, di omicidio colposo. Ù

Il sanitario, in servizio presso il reparto di Chirurgia della Casa di Cura “S. Maria Maddalena” di Occhiobello, nel 2017 aveva eseguito su una paziente novantenne un esame di colonscopia con finalità diagnostica, a seguito della manifestazione di “dolore continuo emiaddome destro”, in seguito al quale però la donna era deceduta. Al medico si imputava colpa generica consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, nonché colpa specifica consistita nell’eseguire una colonscopia diagnostica non indicata secondo le linee guida, né proporzionata alla specificità del caso, tenuto conto della sintomatologia aspecifica lamentata (una persistente emiaddominalgia destra), dell’età avanzata della paziente (90 anni), delle comorbilità (cioè della compresenza di più patologie) e dell’assenza di significative alterazioni cliniche (quali calo ponderale, anemia ferropriva, modificazioni dell’alvo, sanguinamenti gastroenterici, ecc.). 

 

Tra le accuse, quella di non aver effettuato un preliminare approfondimento diagnostico

Il dottore aveva omesso di effettuare un preliminare approfondimento diagnostico mediante metodiche meno invasive, più proporzionate e prive di rischi (quali ricerca del sangue occulto nelle feci, ecografia, tomografia computerizzata, risonanza magnetica, colontomografia), nonché di eseguire una adeguata preparazione intestinale al fine di non inficiare l’esame diagnostico, fondato sull’attenta visualizzazione della parete intestinale di cui si dovevano cogliere le eventuali micro e macro lesioni, proseguendo l’indagine endoscopica anche dopo avere rilevato la presenza – immediatamente apprezzabile nella fase iniziale di introduzione dello strumento – di “scadentissima toilette intestinale” (per la presenza di materiale fecale), quale circostanza che rendeva prevedibile e concreta la difficoltà nella progressione dello strumento stesso e necessario  rinviare l’indagine (qualora ritenuta opportuna) solo all’esito di adeguata “toilette”. 

Il professionista inoltre aveva omesso di adottare, dopo aver comunque scelto di proseguire l’indagine, le maggiori cautele che si rendevano necessarie nelle fasi di manovra dell’endoscopio flessibile, determinando così una lacerazione della parete colica – in una sede priva di alterazioni anatomo-patologiche, di condizioni di fragilità ovvero di aree di minor resistenza parietale – per trauma provocato dall’errata manovra dell’endoscopio, da cui era conseguito il decesso della paziente, il 28 marzo 2017, per “insufficienza multi organo”, quale evento terminale di una rapida evoluzione di shock settico conseguente a “perforazione sigmoidea iatrogena” e conseguente “peritonite stercoracea diffusa” in soggetto “grande anziano”, affetto da quadro di comorbilità pluripatologica.

 

Il dottore ricorre per Cassazione tirando in ballo anche la “medicina difensiva”

Il medico ha quindi proposto ricorso anche per cassazione, deducendo una svariata serie di motivi di doglianza quanto alla sussistenza del nesso causale sostenuta nella sentenza impugnata, alla carenza del giudizio esplicativo, alla mancata effettuazione del giudizio di probabilità logico, al travisamento delle prove concernenti la potenzialità salvifica del concreto atto terapeutico, all’erronea applicazione del principio “dell’oltre ogni ragionevole dubbio”, eccetera.

Ad esempio, a detta del ricorrente, la sua condanna sarebbe stata viziata da un inammissibile approccio ex post e basato su criteri interpretativi sostanzialmente “civilistici”, nell’ottica del “più probabile che non”, violando le regole vigenti in materia di accertamento della responsabilità penale, come precisate dalla giurisprudenza, in particolare sul punto del nesso di causa. Secondo il medico, addirittura, la consulenza medico legale della pubblica accusa e, quindi, le sentenze impugnate, che ad essa si rifacevano fedelmente, avrebbero scontato un vistoso pregiudizio, derivante dal fatto che i consulenti tecnici provenivano dalla sanità pubblica, ove il fenomeno – deteriore – della “medicina difensiva” è notoriamente endemico. E queste “radici culturali” avrebbero pesantemente condizionato anche la “scelta di campo” operata dai giudici. 

Com’è noto, la medicina difensiva si verifica quando i medici ordinano test, procedure e visite, oppure evitano pazienti o procedure ad alto rischio, principalmente (ma non necessariamente) per ridurre la loro esposizione ad un giudizio di responsabilità per malpractice. Quando i medici prescrivono extra test o procedure per ridurre la loro esposizione ad un giudizio di responsabilità per malpractice, essi praticano una medicina difensiva positiva. Quando essi evitano certi pazienti o procedure, essi praticano una medicina difensiva negativa, Per il ricorrente, dalla sentenza impugnata trasparirebbe un pregiudizio nei confronti del medico endoscopista, la cui prima colpa sarebbe stata individuata nell’avere accettato il rischio di effettuare una colonscopia su di una paziente novantenne, con intervento sostanzialmente ambulatoriale, all’interno di una clinica privata.

Tra le tesi sostenute nel ricorso, inoltre, vi era anche della complicanza incolpevole. Il ricorrente  ha battuto sul fatto che, al pari di qualsiasi procedura endoscopica, anche la colonscopia è gravata dal rischio del verificarsi di possibili complicanze, tra le quali si annovera la perforazione. E che tale evento poteva verificarsi anche in condizioni di adeguata toilette intestinale – migliore, rispetto al caso di specie – così come anche nei casi in cui tali procedure siano eseguite secondo opportuna tecnica e da personale esperto.

La Suprema Corte tuttavia rigetta tutti i motivi di doglianza

Pe la Cassazione, tuttavia, tutti i motivi erano infondati e, pertanto, il ricorso è stato rigettato. “Le censure del ricorrente si sostanziano nella riproposizione delle medesime doglianze già sollevate in appello, senza che vi sia un adeguato confronto critico con le risposte a quelle fornite dai giudici del gravame del merito. L’impianto argomentativo del provvedimento impugnato appare puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l’iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in sede di legittimità” premettono i giudici del Palazzaccio, che però entrano comunque nel merito ripercorrendo la vicenda. 

Il referto, dopo aver proceduto alla descrizione dell’atto medico, concludeva che, pur dovendosi tener conto di una scadentissima toilette intestinale, che limitava la definizione della mucosa colica, la colonscopia era risultata negativa. Successivamente all’esame, la paziente aveva cominciato ad avvertire dei dolori addominali persistenti e, attraverso una radiografia all’addome, era stata accertata una perforazione intestinale, rivelata da abbondante aria endoperitoneale. Trasferita d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale di Rovigo poco dopo le 14, la paziente veniva ricoverata nel reparto di chirurgia per un intervento chirurgico di urgenza, ma prima dell’intervento, alle 22:35, moriva a causa di uno shock emodinamico e arresto cardiaco, cause della morte che non sono in discussione

 

Fatale la perforazione dell’intestino causata incautamente dall’endoscopia

Veniva svolta nell’immediatezza del decesso una consulenza tecnica ai sensi dell’articolo 360 cod. proc. pen. da un medico-legale e uno specialista in gastroenterologia, e l’accertamento svolto a seguito di indagine autoptica consentiva in via primaria di constatare a carico della parete del sigma in prossimità del segmento rettale una soluzione di continuo della parete intestinale della lunghezza pari a circa 3,5 centimetri, collocata a circa 11 centimetri rispetto allo sfintere anale esterno. Il quadro patologico acuto riscontrato all’apertura della cavità addominale era caratterizzato da un marcato versamento peritoneale e da visceri laccati da materia fecaloide, coinvolgente le sierose peritoneali. Osservazioni confermate da ulteriori accertamenti svolti dal gastroenterologo, che confermava che le perforazioni di visceri cavi ad alto contenuto batterico possono provocare una peritonite gravissima per la rapida diffusione dello spandinnento del contenuto viscerale settico; tali evenienze sono originate o da perforazioni iatrogena o spontanee del colon. L’evoluzione della peritonite può essere acuta e, come avvenuto, tale da condurre rapidamente alla morte.

I consulenti tecnici, evidenza quindi la Cassazione, concludevano che le cause della morte della paziente dovevano individuarsi in un’insufficienza multiorgano, quale evento terminale di uno shock settico, conseguente ad una perforazione sigmoidea iatrogena e cioè occorsa nelle fasi della colonscopia svolta il 28 marzo 2017, responsabile della genesi di peritonite stercoracea diffusa in soggetto grande anziano (la paziente era novantenne) affetto da quadro di comorbilità pluripatologica (cardiomiopatia, osteoporosi , dia- tesi autoimmune epatopatia).

Dunque, prosegue la Suprema Corte, ili primo profilo di colpa addebitato fin dall’inizio all’imputato, e ritenuto sussistente da entrambi i giudici di merito, è quello di non avere valutato che, rispetto alle ragioni della prescrizione dell’esame (un dolore addominale cronico), le linee guida in materia ritengono la colonscopia non indicata. Ciò perché – spiega la Cassazione – “si tratta di un esame invasivo che presenta un rischio di perforazione della parete intestinale e tale rischio aumenta in caso di sesso femminile, età avanzata e comorbilità. Lo specialista, perciò, prima di eseguire tale indagine deve procedere ad un inquadramento anamnestico e clinico e alla valutazione dell’indicazione dell’esame prescritto dal medico di medicina generale o da altro specialista”.

 

L’endoscopoista non è un mero “esecutore”

Gli Ermellini sottolineano infatti con forza chel’endoscopista non è un mero esecutore, ma mantiene un’autonomia decisionale e può scegliere anche altri esami meno invasivi. E’ questo il punto nodale dell’odierno decidere”. La difesa del ricorrente sosteneva che questi aveva sottoposto la paziente, che non aveva mai visto in precedenza, a un colloquio anamnestico, informandosi sulle sue patologie e sui farmaci che assumeva, quindi ne aveva verificato i parametri vitali (polso, pressione, saturazione di ossigeno, ecc.), ritenendo “in definitiva, secondo scienza e coscienza, che non vi fossero controindicazioni assolute all’effettuazione della colonscopia, in base a una serie di ragionate valutazioni cliniche“. 

Ben altra invece la prospettiva circa tale visita preliminare da parte dei giudici territoriali, secondo i quali erroneamente l’imputato aveva ritenuto che essa dovesse limitarsi a verificare se vi fossero terapie farmacologiche in atto o emergenze derivanti da distonia dei parametri vitali che potessero costituire fattori di rischio tali da sconsigliare l’esame. La linea difensiva dell’endoscopista, infatti, osserva ancora la Cassazione, “è che, a fronte di una valutazione già operata da un collega, non fosse suo compito valutare l’adeguatezza e il rapporto tra i rischi che per quella tipologia di paziente comportava l’esame che andava ad effettuare rispetto alla sintomatologia che lamentava. E, conseguentemente, che non fosse neanche suo compito valutare eventuali diverse e meno invasive opzioni diagnostiche. 

Secondo la Corte d’appello e anche la Cassazione, ben diverso deve essere il corretto rapporto tra medico specialista che esegue un esame quale quello di cui all’imputazione e medico proponente. “Uno specialista , nello specifico in Chirurgia Generale e Endoscopia digestiva – afferma con forza la Suprema Corte – deve necessariamente procedere prima di eseguire l’indagine endoscopica sia all’inquadramento anamnestico e clinico per la corretta esecuzione della stessa, ma sia anche alla valutazione dell’adeguatezza dell’esame richiesto rispetto alle patologie sospettate, alla sintomatologia lamentata e agli esiti di eventuali esami che hanno preceduto quello richiesto”, valutazione che invece è mancata anche perché l’imputato non  riteneva a torto gli competesse.

 

Anche il consenso informato richiede un’attenta valutazione dell’adeguatezza dell’esame

“Ciò perché – torna a ripetere la Cassazione – non si può ritenere che lo specialista endoscopista sia il “mero esecutore” di indagini richieste da altri, non foss’altro perché tale valutazione è necessariamente richiesta al fine di procedere ad un’informazione adeguata necessaria al fine di “raccogliere una valida disposizione di volontà del paziente, il cosiddetto consenso informato”. E infatti, la correttezza di tale impostazione metodologica, che richiede l’autonoma valutazione dell’adeguatezza dell’esame da parte dello specialista, è attestata secondo la Corte lagunare anche dal documento di “Dichiarazione di avvenuta informazione ed espressione del consenso alla procedura diagnostica terapeutica” del 28/3/2017, firmato dalla paziente e dal medico. Per i giudici del gravame del merito, e per gli Ermellini, la lettura del documento “consente di ritenere che la sua stessa conformazione richieda espressamente una diagnosi clinica da parte dello specialista, a cui segue l’indicazione della “procedura diagnostica proposta”, di cui devono essere indicati alla paziente i benefici attesi dalla procedura, possibili inconvenienti e complicanze, tipo di anestesia praticata, possibili alternative alla procedura proposta, possibili conseguenze della mancata esecuzione proposta”.

La logica conclusione dei giudici di merito è dunque che, contrariamente a quanto sostenuto dal difensore per tutto il processo, “l’anamnesi e la valutazione dell’esame, anche sotto il profilo clinico, spettava allo specialista, sia per una corretta esecuzione dello stesso, sia per la necessità di informare la paziente e di raccogliere un valido consenso e questo a prescindere dalle eventuali richieste di sanitari, che avessero indirizzato all’esame”. Nel momento in cui si dà conto che devono essere indicati alla paziente i benefici attesi dalla procedura diagnostica invasiva che si va a porre in essere, “è palese che lo specialista è chiamato a fare propria, convalidandola all’esito di una propria valutazione autonoma, l’eventuale valutazione del medico proponente”. 

I professionista avrebbe dovuto optare per esami meno invasivi

Dunque, ritenuto che spettasse all’imputato un’autonoma valutazione sull’adeguatezza dell’esame e considerato che lo stesso aveva riferito di avere tenuto una condotta diretta ad accertare le condizioni soggettive della paziente, per i giudici egli era “sicuramente in grado di conoscere e di valutare l’età avanzata della signora e le patologie di cui la stessa era sofferente (cardiopatia ischemico ipertensiva, con paziente portatrice di pacemaker, epatopatia cronica HCV correlata) che dovevano indurlo ad optare, più prudentemente, per esami meno invasivi”.

La stessa sintomatologia algica della paziente, peraltro presente da mesi, in assenza di altri sintomi non avrebbe dovuto consigliare quell’esame per la valutazione dell’esistenza di neoplasia. Insomma, tutto questo quadro doveva portare l’endoscopista non già a non effettuare l’esame endoscopico richiesto, ma a procrastinarlo, facendolo precedere da un approfondimento diagnostico mediante metodiche meno invasive, più proporzionate al caso specifico e prive di rischi: solo successivamente, e solo qualora effettivamente indicato, si sarebbe dovuto procedere alla colonscopia.

 

Il principio di affidamento in ambito medico e la cooperazione multidisciplinare

La materia, va a concedere la Cassazione, è delicata e coinvolge il delicato rapporto tra medici specialisti che effettuano esami diagnostici invasivi, con un ineliminabile quoziente di pericolo per il soggetto che vi si sottopone (è il caso della colonscopia, come della gastroscopia, ma ad esempio, anche delle procedure diagnostiche con mezzo di contrasto o, ad esempio, della coronografia). 

Ma a ben guardare secondo la Suprema Corte, il tema è quello ampiamente dell’affidamento in ambito medico, nello specifico sulla diagnosi o sull’operato altrui. “E’ vero che, a scorrere i precedenti di questa Corte, gli stessi si riferiscono nella quasi totalità ai rapporti tra i partecipi all’intervento operatorio o ai medici che si avvicendano nelle cure di un paziente ricoverato in ospedale, ma i principi affermati possono valere anche in casi come quello in esame” spiegano i giudici del Palazzaccio, che ricordano come “in tema di colpa professionale, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario – compreso il personale paramedico – è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’ef- ficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità (così ex multis questa Sez. 4, n. 30991 del 6/2/2015, Pioppo Rv. 264315)” .

Dunque, ogni sanitario “non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio o facendo in modo che si ponga opportunamente rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali e, come tali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio. L’obbligo di diligenza che grava su ciascun sanitario, infatti, concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, in quanto tali rilevabili con l’ausilio delle comuni conoscenze del professionista medio.

 

L’obbligo di diligenza sull’operato altrui valeva a maggior ragione verso un medico di base

Anche qui la Corte territoriale, secondo gli Ermellini, ha fatto buon governo della giurisprudenza di questa Corte di legittimità evidenziando che, nel caso in esame, “il rapporto era tra un medico di medicina generale (il medico di base o di famiglia) ed uno specialista, qual è l’endoscopista”. Il rimprovero che al riguardo si muove all’imputato, cioè, è che “competeva anche e soprattutto a lui valutare se, a fronte di un paziente che per età e patologie aveva un quoziente di rischio alto, il tipo di sintomi lamentati (i persistenti dolori addominali) fosse tale da giustificare il ricorso alla colonscopia. O, se invece, non fosse più prudente ripiegare su indagini meno invasive o anche, su un esame del sangue occulto nelle feci, che avrebbe potuto fornire quantomeno una prima indicazione circa la presenza di un tumore”. 

La dettagliata sentenza affronta poi anche altre questioni in risposta ai motivi di doglianza dell’imputato, ma qui sarà sufficiente limitarsi al fatto che la Suprema Corte, oltre ad avallare il primo profilo di colpa “omissivo” ritenuto sussistente dai tribunali di merito, quello cioè di non aver valutato che, a fronte dei sintomi lamentati, l’esame richiesto era sproporzionato e sottoponeva la paziente ad un rischio non necessario, conviene in pieno anche sul profilo “commissivo”, avendo effettuato un esame che non andava effettuato o, quanto meno procrastinato all’esito di altre indagini diagnostiche meno invasive, e avendo anche compiuto un grave errore perforando l’intestino della paziente.

“Per l’imputato scegliere di non effettuare la colonscopia alla sua clinica sarebbe stata una scelta di medicina difensiva “negativa”, quella per cui si scartano determinati pazienti e determinate procedure per non incorrere in responsabilità – concludono gli Ermellini – L’affermazione tuttavia non pare tener conto che, nella ponderazione delle scelte terapeutiche o diagnostiche affidate allo specialista (e qui non paiono esservi differenze, contrariamente a quello che ritiene il ricorrente, tra sanità pubblica e privata), viene in gioco anche una prudenza che deve essere, necessariamente, inversamente proporzionale rispetto alla sintomatologia manifestata e al quesito diagnostico da indagare. Nel caso che ci occupa entrambi i giudici di merito offrono una motivazione logica e congrua, supportata dal sapere scientifico introdotto nel processo, evidenziando come non vi fossero elementi per poter ritenere che la persona offesa avesse un sospetto problema oncologico da indagare. Non essendo sufficiente all’uopo il semplice dolore addominale, quand’anche prolungato nel tempo. E rispetto a tale valutazione lo specialista non può lavarsene le mani, soprattutto quando la prescrizione dell’esame proviene da un collega che specialista non è. 

 

Il principio di diritto

La Suprema Corte nella circostanza pronuncia anche il principio per cui, “in tema di colpa professionale medica, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, allorquando venga prescritto un esame diagnostico invasivo (nel caso una colonscopia), il medico specialista chiamato ad effettuare l’esame non può esimersi dal valutare, oltre che la presenza di fattori che possano condizionare negativamente l’esame stesso (assunzione di farmaci, parametri vitali, esito esami ematochimici), anche la bontà della scelta diagnostica operata dal medico richiedente in relazione alla sintomatologia lamentata dal paziente ed all’esistenza o meno di precedenti indagini diagnostiche che avvalorino il sospetto della malattia ipotizzata, soprattutto allorquando l’esame in questione sia stato prescritto da un medico non specialista (nel caso in esame il medico di medicina generale che seguiva la paziente)”. 

Provato anche il nesso di causalità

Infine, secondo gli Ermellini è fuori discussione nella circostanza anche il cosiddetto nesso di causalità materiale, essendo stato causato il decesso della paziente dalla peritonite diffusa scatenata dalla perforazione intestinale. Se non fosse stata effettuata la colonscopia, l’evento morte non si sarebbe verificato. “E basterebbe già la sussistenza di questo primo profilo di colpa per radicare la responsabilità dell’imputato osserva ancora la Cassazione, che tuttavia ne sottolinea con fora anche un secondo altrettanto grave e  decisivo, quello cioè di “non aver interrotto l’esame allorquando ci si è resi conto che, alla luce della scarsa toilette intestinale, i rischi aumentavano” come poi è puntualmente avvenuto: la presenza di materiale fecale costituiva infatti un fattore di resistenza nella spinta dell’endoscopio che rendeva “prevedibile un’azione meccanica di compressione trazione dell’endoscopio stesso sulla superficie della parete” e quindi la perforazione intestinale. Il che ha giustamente portato i giudici veneziani, secondo la Suprema Corte, a ribadire il nesso di causa tra gesto iatrogeno e lesione provocata, che una interruzione tempestiva dell’esame, prima di raggiungere il delicato passaggio dal retto al sigma, avrebbe evitato. 

Conclusivamente, alla luce della puntuale ricostruzione effettuata dalla Corte territoriale, risulta provato il primo dei profili di colpa rimproverabili all’imputato, che risiede nel non aver omesso l’esecuzione dell’esame, rinviandolo all’esito di altri e meno invasivi approfondimenti strumentali. E provato è anche il successivo rimprovero di aver proseguito nello stesso esame, nonostante l’inadeguata preparazione intestinale – che ha poi determinato “la spinta” all’atto della risalita del colon discendente e, quindi, la lesione- che rappresenta un ulteriore rimprovero, causalmente rilevante ai fini dell’evento morte, rispetto al primo e fondamentale rimprovero di aver iniziato la procedura, nel corso della quale si verificava la complicanza”.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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