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Liquidare in modo congruo un danno alla salute è un’operazione già di per sé difficile, ma in alcuni casi il livello di complessità è particolarmente elevato, come quando ci si trova di fronte a situazioni di lesioni o menomazioni concorrenti o coesistenti rispetto a quella da quantificare.

Per questo è particolarmente significativa la sentenza n. 32657/21 depositata il 9 novembre 2021 dalla Cassazione che si è occupata di un grave caso di mala sanità.

 

La causa contro l’azienda sanitaria dei genitori di un bambino vittima di errore medico

Nel 2012 i genitori di un minore avevano citato in giudizio avanti il Tribunale di Campobasso l’Azienda Sanitaria Regionale del Molise chiedendo il risarcimento del danno per le gravi patologie neurologiche con cui era nato il figlio, conseguenza delle negligenze e dei ritardi dei sanitari durante la gravidanza.

I giudici, dopo aver disposto una consulenza tecnica d’ufficio, avevano stabilito che il 40 per cento del danno restasse a carico della parte danneggiata per il concorso della patologia di cui era portatrice la madre, ma per il resto avevano accolto la domanda, condannando l’Asl al pagamento della somma di 903mila euro a titolo di danno non patrimoniale e di 210mila euro per danno patrimoniale, nonché in favore dei genitori in proprio di 108mila euro a titolo di danno patrimoniale per ciascuno e di 120mila per danno non patrimoniale, oltre rivalutazione ed interessi per tutti gli importi riconosciuti e con condanna del terzo chiamato ai fini della manleva, ossia la compagnia assicurativa della struttura.

La decisione però era stata appellata da ambo le parti e, con sentenza del 2018, la Corte d’appello di Campobasso aveva parzialmente accolto l’appello principale dei genitori, condannando l’azienda sanitaria al pagamento degli ulteriori importi in favore del minore di 602mila euro a titolo di danno non patrimoniale ed di 140mila euro per danno patrimoniale ed in favore dei genitori di 72mila euro a titolo di danno patrimoniale e, di ciascuno di essi, di 80mila euro per danno non patrimoniale, oltre rivalutazione ed interessi su tutti gli importi, con la rivalsa nei confronti della società assicuratrice.

La corte territoriale, alle censure della struttura sanitaria, aveva risposto che ricorreva la prescrizione decennale, decorrente dal 31 maggio 2006 e interrotta con la notifica della citazione nel 2012, spettando il risarcimento del danno, nel caso di responsabilità medica per erronea diagnosi concernente il feto, in favore non solo della madre, ma anche del padre. E aveva aggiunto che, a partire dal 3 aprile 2006, in cui era emerso il rallentamento della crescita del feto, si era verificata carenza assistenziale per l’omessa tempestiva ospedalizzazione della paziente ed anticipazione del parto, i quali, ove eseguiti, avrebbero “con probabilità vicina alla certezza”, evitato, o quanto meno ridotti, la progressione dei danni intrauterini fetali e l’entità delle lesioni neurologiche irreversibili da cui era affetto il minore e che pertanto, dato che gli esiti negativi potenzialmente discendenti dal fattore naturale avrebbero potuto essere neutralizzati o circoscritti dal corretto operato sanitario, era illogico ritenere che la situazione patologica della trombofilia materna costituisse elemento fortuito di diminuzione della rilevanza degli inadempimenti sanitari.

 

La responsabilità medica non si  poteva ridurre per la pregressa patologia della madre

Osservò quindi che non era “praticabile la riduzione proporzionale della responsabilità medica per la pregressa patologia della paziente (che rappresenterebbe concausa naturale e non umana), né la riduzione equitativa del quantum risarcibile da parte della struttura sanitaria (impedita dall’interdipendenza fra l’evoluzione della sofferenza fetale e l’accertata condotta colposa dei sanitari che seguirono la donna prima del parto”.

Contro questa sentenza ha infine proposto ricorso per cassazione Amtrust Europe Limited, la compagnia di assicurazione, sulla base di due motivi. Con il primo la ricorrente è tornata a sostenere che, data la natura extracontrattuale della responsabilità con riferimento ai genitori del minore che agivano in proprio, non essendo configurabile a suo dire un contratto di spedalità con effetti protettivi nei confronti di terzi, si sarebbe compiuta al momento della citazione la prescrizione quinquennale.

 

Il contratto con la struttura sanitaria ha effetti protettivi anche verso il padre del nascituro

Ma la Cassazione ha rigettato la doglianza, confermando il giudizio della corte di merito e ribadendo che “il contratto stipulato tra una gestante e una struttura sanitaria, avente ad oggetto la prestazione di cure finalizzate a garantire il corretto decorso della gravidanza, riverbera per sua natura effetti protettivi a vantaggio, non solo della gestante e del nato, ma anche del padre del concepito, il quale in caso di inadempimento, è perciò legittimato ad agire per il risarcimento del danno”.

Con il secondo motivo, quindi, l’assicurazione lamentava il fatto che il giudice di appello, nonostante avesse concordato con le conclusioni della Ctu secondo cui l’evento si sarebbe comunque verificato per la patologia coagulativa-trombofilica di cui era portatrice la gestante, con riduzione della causalità riconducibile alla mancata ospedalizzazione della paziente nella misura del 60%, non aveva delimitato in modo corrispondente il quantum debeatur.

Questa censura, invece, è fondata per la Suprema Corte. Come detto, la corte territoriale aveva ritenuto non praticabile la riduzione del quantum sulla base della premessa che la tempestiva ospedalizzazione della paziente ed anticipazione del parto, ove eseguiti, avrebbero “con probabilità vicina alla certezza“, evitato, o quanto meno ridotto, la progressione dei danni intrauterini fetali e l’entità delle lesioni neurologiche irreversibili da cui era affetto il minore, precisando più avanti che gli esiti negativi potenzialmente discendenti dal fattore naturale avrebbero potuto essere neutralizzati o circoscritti dal corretto operato sanitario.

Ed è appunto qui che, per gli Ermellini, emerge la contraddittorietà della decisione, “tale da rendere incomprensibile la ratio decidendi”. Sul piano logico infatti “non possono essere assimilate la neutralizzazione e la riduzione degli esiti della patologia pregressa perché, essendo diverse le conseguenze giuridiche dei due presupposti di fatto evidenziati, si cade in un’inconciliabile contraddizione ove li si equipari (concludendo poi per l’irrilevanza della causa naturale ai fini della determinazione del danno risarcibile)” spiega la Cassazione, e chiarisce ulteriormente.

Ove infatti l’intervento sanitario sarebbe stato in grado di neutralizzare la patologia pregressa non si sarebbe posto un problema di concausa di lesione ed è corretto concludere nel senso della irrilevanza della patologia pregressa ai fini della determinazione del danno risarcibile. Ove invece le conseguenze del fattore naturale sarebbero state soltanto ridotte dal tempestivo intervento sanitario, l’incidenza delle stesse al livello della causalità giuridica di cui all’art. 1223 cod. civ. non si sarebbe potuta negare, sulla base della giurisprudenza di questa Corte.

 

I principi di diritto da applicare nel caso di menomazioni preesistenti o concomitanti

La sentenza in oggetto è come detto particolarmente preziosa in quanto la Suprema Corte coglie l’occasione per ricordare e illustrare i principi di diritto da applicare in casi simili.

1) “Lo stato anteriore di salute della vittima di lesioni personali può concausare la lesione, oppure la menomazione che da quella è derivata”; 2 “la concausa della lesioni è giuridicamente irrilevante sul piano della causalità materiale; 3) “la menomazione preesistente può essere concorrente o coesistente col maggior danno causato dall’illecito”; 4) saranno “coesistenti” le menomazioni i cui effetti invalidanti non mutano per il fatto che si presentino sole od associate ad altre menomazioni, anche se afferenti i medesimi organi; saranno, invece, “concorrenti” le menomazioni i cui effetti invalidanti sono meno gravi se isolate, e più gravi se associate ad altre menomazioni, anche se afferenti ad organi diversi; 5) le menomazioni coesistenti sono di norma (e salvo specificità del caso concreto) irrilevanti ai fini della liquidazione; 6) le menomazioni concorrenti vanno di norma tenute in considerazione: a) stimando in punti percentuali l’invalidità complessiva dell’individuo (risultante, cioè, dalla menomazione preesistente più quella causata dall’illecito), e convertendola in denaro; b) stimando in punti percentuali l’invalidità teoricamente preesistente all’illecito, e convertendola in denaro; lo stato di validità anteriore al sinistro dovrà essere però considerato pari al 100% in tutti quei casi in cui le patologie pregresse di cui il danneggiato era portatore non gli impedivano di condurre una vita normale; c) sottraendo l’importo (b) dall’importo (a), partendo dal valore (b); 7) resta imprescindibile il potere-dovere del giudice di ricorrere all’equità correttiva ove la rigida applicazione del calcolo che precede conduca, per effetto della progressività delle tabelle, a risultati manifestamente iniqui per eccesso o per difetto.

L’errore commesso dalla Corte d’Appello è stato dunque quello di aver espresso un giudizio di fatto in termini sia di neutralizzazione che di riduzione delle conseguenze della patologia pregressa da parte dell’intervento sanitario ove svolto in modo diligente, collegando a tale accertamento gli effetti giuridici della neutralizzazione (irrilevanza ai fini della determinazione del danno risarcibile) e non quelli della riduzione.

In tal modo – concludono gli Ermellini – si realizza un’anomalia motivazionale, rilevante quale violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, sia sotto il profilo del giudizio di fatto (neutralizzazione e allo stesso tempo riduzione delle conseguenze della patologia pregressa), sia sotto il profilo del giudizio di diritto (opzione priva di motivazione in favore della fattispecie della neutralizzazione, anziché in favore di quella della riduzione). Sul punto la sentenza della corte territoriale è da ritenere priva di motivazione. Il giudizio di fatto deve avere un termine esclusivo (neutralizzazione o riduzione delle conseguenze della patologia pregressa) e deve collegarvi il conforme effetto giuridico”.

La sentenza limitatamente a questo punto è stata quindi cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Campobasso, in diversa composizione, per il riesame della causa.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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