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Tra le varie casistiche di errore medico che configurano la colpa grave, e quindi la responsabilità anche penale del sanitario, vi à anche l’errato uso dello strumento chirurgico, tanto più se l’imperizia causa un danno fisico serio al paziente se non anche la morte.

A ribadire il principio la Cassazione, con la sentenza n. 20652/22 depositata il 27 maggio 2022, con la quale ha definitivamente operato un chirurgo per il reato di omicidio colposo. 

Chirurgo condannato per aver lacerato l’aorta di una paziente con un trocar ottico

Il Gup del Tribunale di Udine, decisione poi confermata in secondo grado anche dalla Corte d’appello di Trieste con sentenza del 2020, aveva dichiarato la responsabilità di un medico-chirurgo per il decesso di una paziente avvenuto il 4 maggio 2017 all’ospedale di Palmanova. Il professionista, quale primo operatore chirurgo, aveva sottoposto la vittima a un intervento chirurgico di laparoscopia per la riparazione di un laparocele ma gli si addebitava di avere agito con grave imperizia: infatti, nel corso della manovra di introduzione nell’addome della paziente del trocar ottico utilizzato per l’intervento, aveva errato nella direzione di entrata dello strumento, con una esagerata inclinazione verso il basso, e aveva anche sottovalutato la profondità dell’introduzione del dispositivo, agendo con forza e velocità eccessive, tanto da aprire il peritoneo posteriore, penetrare nel retroperitoneo e lacerare con lo strumento l’aorta addominale sottorenale, con conseguente emorragia acuta massiva che aveva causato la morte della donna.

L’imputato, tuttavia, ha proposto ricorso anche per cassazione lamentando, in sintesi, il fatto che la sua responsabilità penale fosse stata collocata nell’ambito della colpa non lieve senza fornire una motivazione logica di tale collocazione, ma richiamandosi a quanto affermato dal perito del GUP, il quale aveva distinto tra la gravità della colpa e la gravità delle conseguenze dell’errore medico. Il suo consulente medico o legale di parte, quanto alla gradazione della colpa, aveva messo in rilievo la maggiore difficoltà dell’intervento rispetto alla media, rappresentata dall’obesità della paziente, e il fatto che nessuno dell’equipe chirurgica avesse rilevato alcuna anomalia durante l’intervento. 

A suo dire, a fronte di queste osservazioni, la Corte di merito avrebbe ricostruito le modalità dell’operazione secondo una propria ipotetica opinione, negando la complessità derivata dall’obesità della paziente e omettendo di confutare le ragioni che l’avevano indotta a non ritenere valido il parere del tecnico di parte. Infine, proprio perché nessuno dell’equipe, compreso il secondo chirurgo, aveva potuto rendersi conto, dalle immagini riportate dal monitor, dell’errore dei tessuti attinti dallo strumento e della profondità raggiunta, secondo la difesa del primo chirurgo non si sarebbe potuto addebitare al solo imputato la colpa consistente nel non aver riconosciuto con precisione, dalle immagini del monitor, i tessuti e gli organi via via toccati dallo strumento, e contemporaneamente archiviare la posizione del secondo chirurgo. La risposta sul punto della Corte d’appello sarebbe stata illogica, non potendosi sostenere, da un lato, l’infondatezza della notizia di reato nei confronti di tutti i membri dell’equipe chirurgica per inidoneità degli elementi acquisiti a sostenere l’accusa in giudizio, e, dall’altro, ritenere che i medesimi elementi avrebbero invece consentito di pervenire alla condanna dell’imputato, sulla sola base dell’ipotesi, non dimostrata, della repentinità dell’affondo del trocar. 

Ma per la Suprema Corte il ricorso è infondato, con conseguente rigetto. Secondo gli Ermellini, al contrario di quanto lamentato dal chirurgo, le sentenze di merito avevano adeguatamente motivato in ordine alla responsabilità dell’imputato “ponendosi anche il problema della configurabilità della colpa grave nel caso concreto e ritenendola sussistente sulla base di argomentazioni congrue, logiche e prive di errori in diritto”.

 

Gli ultimi sviluppi legislativi e giuridici in tema di responsabilità medica

La Cassazione ricorda a questo punto “l’approdo” cui è giunta la giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità medica, a seguito dell’intervenuta successione, nel giro di pochi anni, prima del d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n.189, il cosiddetto decreto “Balduzzi”), con il quale, com’è noto, è stato introdotto il parametro di valutazione dell’operato del sanitario costituito dalle linee-guida e dalle buone pratiche clinico-assistenziali; poi della legge 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge “Gelli-Bianco”), la quale, pur confermando il citato parametro valutativo delle linee-guida (e, in mancanza di queste, delle buone pratiche clinico-assistenziali, la cui inosservanza integra la colpa), nell’introdurre la nuova normativa di cui all’art. 590-sexies cod. pen., rispetto al decreto Balduzzi ha modificato la struttura giuridica della disciplina in questione, sotto il profilo del meccanismo di esenzione da responsabilità. E’ stata configurata una causa di non punibilità qualora il medico agisca per imperizia ma nel rispetto delle linee guida applicabili al caso concreto; per contro, il decreto Balduzzi aveva introdotto una vera e propria abolitio criminis nel caso di colpa lieve del sanitario per imprudenza o negligenza ma il cui agire fosse stato rispettoso delle linee guida adeguate. 

 

Quando è applicabile la causa di non punibilità

La dettagliata interpretazione della disciplina introdotta dall’art. 590-sexies – spiegano i giudici del Palazzaccio – è quella a cui sono approdate le Sezioni Unite di questa Corte, le quali, con sentenza del 21 dicembre 2017, n. 8770), hanno affermato il principio secondo il quale l’art. 590-sexies cod. pen., introdotto dall’art. 6 della legge 8 marzo 2017, n. 24, prevede una causa di non punibilità applicabile ai soli fatti inquadrabili nel paradigma dell’art. 589 o di quello dell’art. 590 cod. pen., e operante nei soli casi in cui l’esercente la professione sanitaria abbia individuato e adottato linee guida adeguate al caso concreto e versi in colpa lieve da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse; la suddetta causa di non punibilità non è applicabile, invece, né ai casi di colpa da imprudenza e da negligenza, né quando l’atto sanitario non sia per nulla governato da linee-guida o da buone pratiche, né quando queste siano individuate e dunque selezionate dall’esercente la professione sanitaria in maniera inadeguata con riferimento allo specifico caso, né, infine, in caso di colpa grave da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse.

 

La gradazione della colpa

Ora, è pacifico che il caso in questione è avvenuto nella vigenza dell’art. 590- sexies cod. pen. “e che lo stesso – prosegue la Cassazione – è stato inquadrato, dai giudici di merito, in una ipotesi di imperizia grave del chirurgo nella fase attuativa dell’intervento, come tale ritenuta penalmente rilevante”. La Suprema corte evidenzia peraltro come il ricorrente non contesti l’inquadramento della colpa nell’imperizia, bensì il giudizio espresso dalla Corte territoriale circa la graduazione della colpa: la difesa dell’imputato, infatti, ha evidenziato come non sia consentito “formulare una valutazione di gravità della colpa senza identificare compiutamente il discrimine tra colpa lieve e colpa grave, pena il rischio di affidarsi alla sola discrezionalità (immotivata) del giudice per determinare quando la colpa del medico possa definirsi in un modo o nell’altro”.

Secondo gli Ermellini, il rilievo è “teoricamente corretto”, e tuttavia “non considera che i giudici di merito hanno fornito adeguata risposta ad esso, alla stregua di una attenta e logica ricostruzione della vicenda concreta. La gravità dell’imperizia è stata affermata alla luce di plurimi elementi, congruamente evidenziati in motivazione”. In primo luogo, la condizione di obesità della paziente non era stata considerata fattore di specifico rischio, “in quanto ben nota all’operatore, e inoltre nessuno dei periti aveva fatto riferimento a quest’aspetto quale fattore di incremento del rischio o quale concausa dell’evento”. Nella sentenza impugnata era stato inoltre considerato che “la lunghezza del trocar, pur prendendo in considerazione quella di 15 cm, era inferiore alla distanza che intercorre tra aorta e punto di ingresso dello strumento, in quanto la differenza tra la lunghezza del trocar e la posizione dell’aorta era pari a quasi 4 cm”: ne consegue, asserisce la Suprema Corte, che il chirurgo “non avrebbe potuto attingere l’aorta se non imprimendo una notevole pressione sul trocar”. 

L’uso di energia eccessiva da parte dell’operatore aveva peraltro trovato conferma nelle deposizioni delle infermiere che avevano prestato assistenza all’imputato: “è stata quindi accertata una esagerata inclinazione del trocar impressa al momento della sua introduzione nell’addome della paziente, nonché la sua introduzione a profondità eccessiva, superando piani anatomici che avrebbero dovuto essere identificati attraverso il monitor” prosegue la Cassazione. E aggiunge. “L’ipotesi di un accesso talmente rapido del trocar da limitare concretamente la possibilità di intervento da parte del secondo operatore è stata plausibilmente considerata, proprio alla luce delle deposizioni delle infermiere che avevano parlato di un’azione “impetuosa” da parte del chirurgo”. 

I giudici del Palazzaccio sottolineano anche che era stata altresì evidenziata l’anomalia di una introduzione del trocar “per una profondità superiore alla sua lunghezza, nonché la circostanza che l’angolo errato dello strumento adottato dal chirurgo, secondo il perito, non corrispondeva a nessuna buona pratica medica”. E soprattutto, vanno a concludere gli Ermellini, la Corte d’appello aveva rimarcato, sotto il profilo della gravità della colpa, “l’accertata circostanza costituita dalla penetrazione dello strumento ad una profondità maggiore rispetto alla cavità addominale su cui avrebbe dovuto operare; è stato riscontrato che il trocar aveva attraversato non il peritoneo ma addirittura il retroperitoneo, vale a dire la struttura collocata ancora più profondamente rispetto alla cavità addominale, fino a raggiungere il piano dell’aorta, tanto che lo stesso perito, nel descrivere tale situazione, aveva concluso in termini di colpa grave dell’operatore“. 

Non ultimo, la sentenza della Corte d’Appello aveva recepito anche le considerazioni formulate dal primario dell’ospedale al figlio della vittima, che aveva registrato il colloquio, il quale primario aveva ammesso come nel tragico caso vi fosse stato “un errore umano grossolano” nel corso dell’intervento.

In definitiva, il giudizio di gravità della colpa, secondo la Cassazione, è stato “legittimamente formulato dai giudici territoriali, alla luce di una condotta del chirurgo manifestamente esorbitante rispetto al dovuto, essendo stata riscontrata una notevole (ed eccessiva) divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi alla stregua di una azione perita e corretta dell’operatore, tanto da configurare una deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato: conclusioni che per di più, secondo la Suprema corte, avevano adeguatamente tenuto conto, oltre che delle specifiche condizioni del chirurgo, del suo grado di specializzazione e della situazione specifica in cui si era trovato ad operare, “della natura elastica della regola cautelare violata, trattandosi di comportamento determinabile in base a circostanze contingenti”. Il ricorso è stato pertanto rigettato e la condanna del medico confermata. 

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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