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Dopo la fondamentale sentenza n. 6688/2018 del 18 marzo scorso sull’obbligo di informare sempre il paziente con un linguaggio comprensibile, la Corte di Cassazione è tornata sull’argomento con un altro pronunciamento interessante, la sentenza n. 7248/2018 del 23 marzo.

In buona sostanza, gli Ermellini ribadiscono che, in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, la mancata acquisizione di un completo ed esauriente consenso informato del paziente, da parte del sanitario, può comportare un danno costituito dalle sofferenze conseguenti alla cancellazione o contrazione della libertà di disporre, psichicamente e fisicamente, di se stesso e del proprio corpo, patite dal primo laddove si sottoponga a terapie farmacologiche e ad interventi medico-chirurgici collegati a rischi dei quali non gli sia stata data adeguata informazione. Tale danno, che può formare oggetto di prova offerta dal paziente anche attraverso presunzioni e massime di comune esperienza, lascia impregiudicata tanto la possibilità di contestazione della controparte quanto quella del paziente di allegare e provare fatti a sé ancor più favorevoli.

Ma la Suprema Corte chiarisce soprattutto che, in tema di attività medico-chirurgica, il medico viene meno all’obbligo di fornire idonea ed esaustiva informazione al paziente, al fine di acquisirne un valido consenso, non solo quando omette del tutto di riferirgli della natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando ne acquisisca con modalità improprie il consenso, sicché non può ritenersi validamente prestato il consenso espresso oralmente dal paziente. Il consenso informato deve basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, portata ed estensione dell’intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, non essendo all’uopo idonea la sottoscrizione, da parte del paziente, di un modulo del tutto generico, né rilevando, ai fini della completezza ed effettività del consenso, la qualità del paziente, che incide unicamente sulle modalità dell’informazione, da adattarsi al suo livello culturale mediante un linguaggio a lui comprensibile, secondo il suo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone.

Nello specifico, il caso affrontato dalla Cassazione è quello relativo ad una coppia di genitori che avevano citato in causa avanti il Tribunale di Catania un ginecologo e una casa di cura chiedendo il risarcimento di tutti danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti a seguito della nascita del figlio, venuto alla luce con grave sofferenza fetale e conseguente anossia da parto dalla quale aveva riportato un’invalidità pari al cento per cento, salvo poi morire durante il processo. La domanda veniva parzialmente accolta accolta nei confronti del medico, con condanna al pagamento della somma complessiva di un milione e 170mila euro, mentre venivano rigettate le pretese nei confronti della Casa di Cura. Contro questa sentenza i genitori hanno proposto appello principale ma la Corte d’Appello di Catania, rinnovata la consulenza tecnica d’ufficio, lo ha respinto, accogliendo invece l’appello incidentale della controparte e rigettando del tutto la domanda degli attori.

Il papà e la mamma del bambino hanno quindi presentato ricorso in Cassazione affidandosi a quattro motivi di gravame, il primo dei quali relativo, per l’appunto, alla contestata violazione delle norme sul consenso informato: i due ricorrenti lamentavano, al riguardo, che, pacifica l’assenza di informazioni fornite alla paziente sui rischi connessi al trattamento terapeutico intrapreso, la Corte d’Appello aveva reso, sulla specifica doglianza ed in presenza di circostanziata domanda, una motivazione ambigua, meramente fondata sull’esclusione che dall’omessa informazione fossero derivate le drammatiche conseguenze verificatesi, ascrivendole ad un “evento anomalo”. Nel secondo motivo, poi, i due genitori contestavano l’omesso esame (quale fatto decisivo per la soluzione della controversia ed oggetto di discussione fra le parti) del nesso di causalità fra le conseguenze dannose della terapia farmacologica somministrata ed il mancato consenso prestato, tenuto conto che era stato accertato che non era affatto necessaria l’induzione farmacologica del parto, visto che la paziente era stata precesarizzata, e che, pertanto, era normalmente preferibile ricorrere a parto cesareo elettivo. E lamentavano che la Corte aveva omesso di considerare che una corretta informazione avrebbe potuto mettere la mamma in condizione di scegliere di evitare il rischio delle conseguenze dannose poi verificatesi.

La Corte di Catania – recita la sentenza della Cassazione -, pur statuendo che non era stata fornita adeguata informazione sui rischi esistenti né era stato acquisito un valido consenso della paziente in ordine alla terapia farmacologico/induttiva alla quale sarebbe stata sottoposta, ha escluso, in relazione alla specifica domanda, la sussistenza della violazione del diritto all’autodeterminazione come fattispecie autonoma, nonché l’esistenza del nesso etiologico fra il trattamento cui la partoriente era stata sottoposta (senza consenso) e la vicenda patologica che si era successivamente sviluppata. Questa Corte intende dar seguito all’orientamento ormai consolidato, e introdotto ed espressamente confermato da un arresto coevo alla sentenza impugnata (cfr. Cass. 11950/2013), che ha riconosciuto l’autonoma rilevanza, ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria, della mancata prestazione del consenso da parte del paziente, e che ha espressamente ritenuto, così come del resto già argomentato dal Tribunale di Catania, che “la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonché un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in se stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute“. (cfr. ex multis Cass. civ. 2854/2015; Cass. civ. 24220/2015; Cass. 24074/2017; Cass. 16503/2017). Ciò è a dirsi nell’ottica della legittima pretesa, per il paziente, di conoscere con la necessaria e ragionevole precisione le conseguenze dell’intervento medico, onde prepararsi ad affrontarle con maggiore e migliore consapevolezza, atteso che la nostra Costituzione sancisce il rispetto della persona umana in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua essenza psicofisica, in considerazione del fascio di convinzioni morali, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive (Cass. n. 21748/2007; Cass. 23676/2008, in tema di trasfusioni salvavita eseguite al testimone di Geova contro la sua volontà).


“Ad una corretta e compiuta informazione –
continua la Cassazione – consegue, difatti: il diritto, per il paziente, di scegliere tra le diverse opzioni di trattamento medico; la facoltà di acquisire, se del caso, ulteriori pareri di altri sanitari; la facoltà di scelta di rivolgersi ad altro sanitario e ad altra struttura, che offrano maggiori e migliori garanzie (in termini percentuali) del risultato sperato, eventualmente anche in relazione alle conseguenze post-operatorie; il diritto di rifiutare l’intervento o la terapia – e/o di decidere consapevolmente di interromperla; la facoltà di predisporsi ad affrontare consapevolmente le conseguenze dell’intervento, ove queste risultino, sul piano postoperatorio e riabilitativo, particolarmente gravose e foriere di sofferenze prevedibili (per il medico) quanto inaspettate (per il paziente) a causa dell’omessa informazione.

Possono, pertanto, prospettarsi le seguenti situazioni: omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi nelle medesime condizioni, hic et nunc: in tal caso, il risarcimento sarà limitato al solo danno alla salute subito dal paziente, nella sua duplice componente, morale e relazionale (sul punto, Cass. 901/2018); omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà esteso anche al danno da lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente; omessa informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta non colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà liquidato con riferimento alla violazione del diritto alla autodeterminazione (sul piano puramente equitativo), mentre la lesione della salute – da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poiché, in presenza di adeguata informazione, l’intervento non sarebbe stato eseguito – andrà valutata in relazione alla situazione differenziale tra quella conseguente all’intervento e quella (comunque patologica) antecedente ad esso; omessa informazione in relazione ad un intervento che non ha cagionato danno alla salute del paziente (e che sia stato correttamente eseguito): in tal caso, la lesione del diritto all’autodeterminazione costituirà oggetto di danno risarcibile tutte le volte che, e solo se, il paziente abbia subito le inaspettate conseguenze dell’intervento senza la necessaria e consapevole predisposizione ad affrontarle e ad accettarle, trovandosi invece del tutto impreparato di fronte ad esse.


Condizione di risarcibilità (in via strettamente equitativa) di tale tipo di danno non patrimoniale è che esso varchi la soglia della gravità dell’offesa secondo i canoni delineati dagli arresti di questa Corte (cfr Cass. SSUU 26972/2008 e Cass. 26975/2008) con i quali è stato condivisibilmente affermato che il diritto, per essere oggetto di tutela risarcitoria, deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità, da determinarsi dal giudice nel bilanciamento con il principio di solidarietà secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico.


Ne consegue, in definitiva, che il risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione che si sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, necessario e correttamente eseguito
secundum legem artis, ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, potrà conseguire alla allegazione del pregiudizio, la cui prova potrà essere fornita anche mediante presunzioni (cfr. Cass. 16503/2017), fondate, in un rapporto di proporzionalità inversa, sulla gravità delle condizioni di salute del paziente e sul grado di necessarietà dell’operazione.


Ne consegue che l’indagine potrà estendersi ad accertare se il paziente avrebbe rifiutato quel determinato intervento ove fosse stato adeguatamente informato (Cass. civ. Sez. III, Sent., 9-2-2010, n. 2847); ovvero se, tra il permanere della situazione patologica in atti e le conseguenze dell’intervento medico, avrebbe scelto la prima situazione; o ancora, se, debitamente informato, avrebbe vissuto il periodo successivo all’intervento con migliore e più serena predisposizione ad accettarne le eventuali quanto inaspettate conseguenze e sofferenze.


Ci si trova, pertanto, in un territorio (e in una dimensione probatoria) che impone al giudice di interrogarsi se il corretto adempimento, da parte del medico, dei suoi doveri informativi avrebbe prodotto l’effetto della non esecuzione dell’intervento chirurgico dal quale, anche senza colpa di alcuno, lo stato patologico è poi derivato, ovvero avrebbe consentito al paziente la necessaria preparazione ad affrontare il periodo post-operatorio nella piena e necessaria consapevolezza di tutte le sue possibili conseguenze.


La Corte d’Appello, pertanto, è incorsa in errore in quanto, dopo aver ammesso l’esistenza della violazione denunciata, ha riformato la sentenza sullo specifico punto, respingendo le pretese risarcitorie avanzate”.

Non solo. Esprimendosi sui motivi del ricorso incidentale proposto dalla controparte, la Cassazione aggiunge che “questa Corte ha escluso la validità del consenso prestato verbalmente affermando, con orientamento al quale questo Collegio intende dare seguito, che: “In tema di attività medico-chirurgica, il medico viene meno all’obbligo di fornire idonea ed esaustiva informazione al paziente, al fine di acquisirne un valido consenso, non solo quando omette del tutto di riferirgli della natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando ne acquisisca con modalità improprie il consenso, sicché non può ritenersi validamente prestato il consenso espresso oralmente dal paziente“. (Cass. 19212/2015).


E, in ordine alle forme da utilizzare, è stato pure ritenuto che “
In tema di attività medico-chirurgica, il consenso informato deve basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, portata ed estensione dell’intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, non essendo all’uopo idonea la sottoscrizione, da parte del paziente, di un modulo del tutto generico, né rilevando, ai fini della completezza ed effettività del consenso, la qualità del paziente, che incide unicamente sulle modalità dell’informazione, da adattarsi al suo livello culturale mediante un linguaggio a lui comprensibile, secondo il suo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone” (Cass. 2177/2016)”.


In conclusione, l’appello dei ricorrenti è stato accolto con rinvio alla Corte d’Appello di Catania “
che dovrà riesaminare la controversia – conclude la sentenza – alla luce del seguente principio di diritto: “In materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, l’acquisizione di un completo ed esauriente consenso informato del paziente, da parte del sanitario, costituisce prestazione altra e diversa rispetto a quella avente ad oggetto l’intervento terapeutico, dal cui inadempimento può derivare – secondo l’id quod plerumque accidit – un danno costituito dalle sofferenze conseguenti alla cancellazione o contrazione della libertà di disporre, psichicamente e fisicamente, di se stesso e del proprio corpo, patite dal primo in ragione della sottoposizione (come nella specie) a terapie farmacologiche ed interventi medico-chirurgici collegati a rischi dei quali non sia stata data completa informazione. Tale danno, che può formare oggetto, come nella specie, di prova offerta dal paziente anche attraverso presunzioni e massime di comune esperienza, lascia impregiudicata tanto la possibilità di contestazione della controparte quanto quella del paziente di allegare e provare fatti a sé ancor più favorevoli di cui intenda giovarsi a fini risarcitori (in argomento, di recente, Cass. 26827/2017)“.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Malasanità

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