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Il datore di lavoro deve salvaguardare la sicurezza e l’incolumità dei propri dipendenti anche rispetto alle condizioni climatiche: non si può far lavorare i sottoposti a temperature “estreme” senza adottare alcun accorgimento e senza fornire loro alcuna informazione circa i rischi connessi a tale situazione.

Con un’ordinanza particolarmente significativa, la n. 37645/21 depositata il 30 novembre 2021, la sesta sezione civile della Cassazione ha confermato la condanna di un’azienda a risarcire i congiunti di un suo operaio deceduto a causa di un colpo di calore che l’ha colpito durante l’espletamento dell’attività lavorativa.

 

Un incidente sul lavoro particolare causato dalla calura eccessiva

La Corte d’appello di Roma, con sentenza del gennaio del 2020, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva accolto la domanda proposta dai congiunti di un lavoratore edile per essere risarciti del danno, iure proprio e iure hereditatis, determinato dalla perdita del loro caro a seguito di un infortunio sul lavoro avvenuto nel luglio del 2010 che ne aveva determinato il decesso due settimane dopo.

Condannata l’azienda che non aveva adottato alcun accorgimento a fronte del gran caldo

La Corte territoriale, a seguito di rinnovo della consulenza tecnica d’ufficio, aveva stabilito che il decesso dell’uomo era stato determinato da un colpo di calore sopraggiunto durante l’espletamento della sua attività di manovale edile, situazione che aveva agito, quale concausa, insieme ad un fenomeno broncopneumonico primitivo intervenuto durante la degenza ospedaliera. E aveva altresì accertato la responsabilità del datore di lavoro, e quindi della società di cui l’addetto era dipendente, che, in una giornata connotata da un clima particolarmente caldo, non aveva adottato alcun accorgimento specifico né aveva dotato di informazioni i dipendenti in ordine ai pericoli riconnessi a tale situazione climatica. Di qui la condanna dell’azienda a pagare, a favore degli eredi del lavoratore, la somma di 180mila euro a titolo di risarcimento del danno iure proprio e di 1.500 a titolo ereditario.

La società ricorre per Cassazione, che tuttavia rigetta le doglianze

La società ha quindi proposto ricorso per Cassazione lamentando il fatto che il Ctu nominato dalla Corte d’Appello avrebbe trascurato di esaminare tutti gli atti e i documenti prodotti con la memoria di costituzione dell’azienda e che nella sentenza impugnata non sarebbero state fornite le motivazioni alla base della decisione finale.

Per la Suprema Corte, tuttavia, il ricorso è inammissibile. Al di là degli aspetti formali e delle modalità non conformi con cui è stato proposto dalla ricorrente l’atto di impugnazione, secondo gli Ermellini la censura “difetta anche di decisività, perché non sono minimamente dedotti i profili che avrebbero potuto condurre il consulente medico d’ufficio ad una diversa valutazione”.

Colpo di calore subito durante l’attività lavorativa determinante nel decesso dell’operaio

I giudici del Palazzaccio sottolineano che la Corte territoriale aveva tenuto conto della peculiarità della fattispecie, ossia della derivazione causale del decesso anche da un fenomeno infettivo (ossia la broncopolmonite), ma che alla fine, sulla scorta dei chiarimenti forniti dal consulente tecnico d’ufficio, aveva concluso che “anche a voler ritenere il decesso determinato dall’evento infettivo, deve necessariamente essere considerata la rilevanza dello stato fisico di (omissis), già debilitato dal colpo di calore. Infatti, proprio a causa della debilitazione fisica conseguente al colpo di calore, il fisico dell’operaio si è trovato incapace di reagire all’infezione broncopolmonare. Ne consegue che il colpo di calore subito nel corso dell’espletamento dell’attività lavorativa è stato quantomeno una concausa del decesso”.

Il ricorso è stato pertanto rigettato con la conferma della condanna della società al risarcimento.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Infortuni sul Lavoro

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