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Com’è noto, in tema di malpractice medica i sanitari devono rispondere non solo in caso di errori “commissivi” ma anche se omettono di disporre determinati esami e accertamenti che avrebbero potuto salvare un paziente. Emblematica e preziosa, in tal senso, la sentenza n. 36044/22 depositata il 26 settembre 2022 con cui la Cassazione ha affrontato il tragico caso di un bambino deceduto a causa di una stenosi tracheale conseguenza di una precedente intubazione.

 

Due medici condannati per omicidio colposo di un bimbo

Con sentenza del 4 marzo 2021 la Corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della decisione del Tribunale di Lucca, aveva confermato la condanna nei confronti di due medici, nella rispettiva qualità di pediatra presso un presidio di guardia medica e di pediatra presso il reparto di Pediatria di un ospedale toscano, in servizio nel giorno in cui la vittima aveva fatto accesso ai due presidi, per il delitto di omicidio colposo di un bambino. I giudici avevano rideterminato favorevolmente la pena inflitta loro in primo grado, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e con il beneficio della non menzione della condanna nel certificato penale, riaffermando tuttavia la loro responsabilità, e mandando invece assolto il medico di base del bimbo che era stato invece condannato nella sentenza di prime cure. 

Nonostante i sintomi chiari e gravi, non avevano proceduto al ricovero del piccolo

I due imputati erano stati accusati e condannati per aver causato, con condotte colpose indipendenti, per colpa dovuta a imprudenza, negligenza e imperizia, la morte di un bambino di dieci anni (avvenuta per arresto cardiocircolatorio in conseguenza di una stenosi tracheale iatrogena post-intubazione in un quadro di diffusa e severa bronchite), formulando una diagnosi di bronchite e omettendo (malgrado la mancata risposta medica alla terapia somministrata per molti giorni sino al decesso, il peggioramento delle condizioni respiratorie, il tipo di dispnea, la progressiva comparsa di intensa astenia e disfonia) di disporre il ricovero del bambino onde sottoporlo ad ulteriori accertamenti (quali una visita pneumologica approfondita eventualmente completata da spirometria ed esame broncoscopico), che avrebbero consentito di accertare la vera causa delle difficoltà di respirazione, ovvero la stenosi tracheale, ed intervenire per rimuoverla con elevata probabilità di completa guarigione. 

 

Il bambino era deceduto a causa di una stenosi tracheale scambiata per bronchite

La Corte di Appello aveva ripercorso la storia clinica del piccolo (affetto fin dalla nascita da una grave cifoscoliosi ad andamento progressivo, ritardo di sviluppo psico motorio e statuo-ponderale, siringomielia e delezione del cromosoma 12 e sottoposto a ripetuti interventi presso il reparto di Ortopedia e traumatologia dell’ospedale), così come i tre accessi del bambino presso strutture sanitarie precedenti di alcuni giorni rispetto a quello che aveva visto convolti i due imputati, giungendo alla conferma dell’affermazione della responsabilità di questi ultimi, previo espletamento di una perizia medico legale collegiale con cui era stata chiarita la causa della morte ed erano stati individuati profili di colpa nella condotta dei sanitari causalmente collegati all’evento morte. 

I due medici tuttavia hanno proposto due distinti ricorsi per Cassazione. La dottoressa pediatra dell’ospedale ha lamentato il fatto che la Corte territoriale, nel ritenere che fosse pienamente esigibile da parte sua sotto il profilo medico legale già alla visita e all’auscultazione dei rumori toracici il sospetto diagnostico di occlusione tracheale, con conseguente doverosa  predisposizione di rapidi e compiuti accertamenti, avrebbe adottato un percorso argomentativo in contrasto con le risultanze processuali e con le emergenze peritali: secondo la tesi difensiva, i giudici non avrebbero considerato il quadro clinico del bambino al momento della visita effettuata in pediatria nel giorno in questione, il 20 ottobre. 

 

Per la pediatra dell’ospedale al momento della sua visita i sintomi non erano ancora evidenti

Secondo la ricorrente, i sintomi tipici della stenosi tracheale sarebbero maturati certamente al momento della visita del 24 ottobre presso il medico di base ma non prima, e gli stessi periti avrebbero definito le condizioni cliniche del bambino in occasione delle visite cui fui sottoposto il 20 e il 24 non in grado di far presagire un imminente pericolo di vita. La esigibilità della condotta alternativa avrebbe dovuto essere valutata alla stregua delle conoscenze di cui il sanitario era in possesso al momento della condotta e non già rispetto a quelle più ampie di cui il giudice disponeva al momento del giudizio. 

E comunque ha invocato la “colpa lieve” non penalmente rilevante

L’imputata ha sostenuto di aver avuto una cognizione parziale del quadro clinico del paziente in quanto era stata incaricata dalla guardia medica di svolgere l’esame della saturimetria su soggetto bronchitico e tale esame aveva dato esito estremamente positivo; i genitori non avevano riferito alcuni sintomi, quali stanchezza, sudorazione e arrossamenti, presentati nei giorni antecedenti; il bambino non aveva palesato né cambiamenti della voce, né stridori respiratori; infine, il filmato del 19 ottobre, nel quale il piccolo era stato ripreso a scuola, avrebbe evidenziato una respirazione affannosa, ma con uno stridore di entità moderata. E in ogni caso, anche laddove si si fosse ritenuta la sua responsabilità, la Corte avrebbe dovuto ricondurre il suo operato entro i limiti della colpa lieve che, com’è noto, esclude la rilevanza penale della condotta ai sensi dell’art. 3 del D.L 13 settembre 2012 n. 158, il cosiddetto Decreto Balduzzi. 

 

Il pediatra di guardia medica ha obiettato, tra l’altro, di non aver avuto il potere di ricovero

Il pediatra di guardia medica, invece, ha formulato ben cinque motivi di doglianza, sostenendo in primis che, in qualità di pediatra non ospedaliero, non avrebbe avuto alcun potere di disporre il ricovero. Il sanitario ha evidenziato che gli stessi periti avevano rilevato che i sintomi derivati dalla bronchite cronica catarrale, tra i quali certamente la tosse, potevano sovrapporsi a quelli della stenosi e costituire ostacolo alla formulazione di ipotesi diagnostica corretta e che senza elementi documentali che evidenziassero una storia di intubazione difficoltosa e prolungata poteva risultare difficile sospettare una stenosi tracheale iatrogena post-intubazione. Egli aveva inoltre affermato che, dopo che la dottoressa aveva preso in carico il bambino in reparto, e dopo aver parlato con lei ed esposto il caso, era smontato dal turno e non aveva avuto pertanto la possibilità di rivalutare la situazione del bambino. Inoltre, ha lamentato il fatto che non sarebbe stato approfondito il tema della rilevanza del comportamento alternativo corretto al fine di prevenire l’evento, ovvero della sicura dirimenza degli esami che avrebbero dovuto essere effettuati, alla luce del carattere di subitaneità del decesso.

Lamentando anche la mancata considerazione del principio di affidamento

Il medico ha altresì ha censurato la mancata considerazione, a suo dire, nella sentenza impugnata, del principio di affidamento, individuato nella possibilità e doverosità dell’agente, date certe condizioni, di fidarsi dell’operato dei soggetti con i quali interferisce causalmente. La Corte avrebbe omesso di considerare che egli poteva e doveva fare legittimamente affidamento sul corretto operato dei medici precedentemente intervenuti sul paziente, dato che nella situazione concreta non vi erano ragioni esigibili per le quali egli si sarebbe dovuto discostare dalla diagnosi resa da due medici ospedalieri nei giorni immediatamente precedenti. E al riguardo, sempre a suo dire, l’affermazione della Corte territoriale secondo cui al momento della visita del 20 ottobre le condizioni del bambino erano peggiorate sarebbe frutto di un travisamento della prova, posto che i genitori del bambino avrebbero invece riferito che le condizioni erano rimaste invariate negli ultimi dieci giorni. 

Ancora la guardia medica pediatrica ha lamentato che la Corte di appello avrebbe omesso di motivare in ordine alla fattibilità degli esami ed avrebbe stimato l’elevata probabilità della guarigione, nel caso di sottoposizione del paziente ad intervento chirurgico, sulla base di un dato statistico, già di per sé poco tranquillizzante (exitus mortale post operatorio nel 15/30 per cento dei casi), e comunque non declinato sulla concreta condizione del severissimo quadro patologico del paziente. 

Il medico ha censurato inoltre il fatto che la Corte territoriale, nell’analisi dell’elemento psicologico del reato, si sarebbe soffermata sulla violazione della regola cautelare, consistita nel non avere disposto il ricovero, e non già sulla previsione o prevedibilità della morte quale conseguenza di tale omissione e in maniera contraddittoria avrebbe assolto il medico di base che per ultimo aveva visitato il piccolo prima della tragedia. 

Infine, ha eccepito sul fatto che la Corte d’Appello, nel valutare la gradazione della colpa ai fini della applicazione del D.L. n.158/2012, ovvero la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi, non si sarebbe confrontata con gli indicatori individuati dalla giurisprudenza, quali le specifiche condizioni del soggetto agente ed il suo grado di specializzazione, la situazione ambientale in cui il professionista si è trovato ad operare, l’oscurità del quadro patologico e la difficolta di cogliere e legare le informazioni cliniche. Inoltre la Corte si sarebbe limitata ad evocare le obiezioni dei consulenti di parte, senza adeguatamente confutarne e smentirne le conclusioni. 

 

La Cassazione rigetta tutte le doglianze, ripercorrendo le tappe della vicenda

Per la Cassazione tuttavia entrambi i ricorsi sono inammissibili. Gli Ermellini ripercorrono nel dettaglio le evidenze processuali della tragica vicenda, sottolineando come la perizia medico legale avesse chiarito che la stenosi tracheale riscontrata in sede di autopsia doveva essere riferita alla intubazione orotracheale eseguita in occasione dell’intervento chirurgico cui il bambino era stato sottoposto il 20 settembre; che la causa della morte era stata l’occlusione completa della trachea favorita dalla concomitanza della stenosi tracheale di grado moderato-grave e l’accumulo a valle della stenosi di secrezioni mucipare secondarie alla bronchite cronica catarrale da cui il bimbo era affetto; che dal filmato registrato a scuola il 19 ottobre si potevano apprezzare segni di affaticamento respiratorio e che, almeno da tale data, era insorto il quadro tipico della stenosi tracheale che doveva ritenersi essere rimasto costante anche nei giorni successivi (tanto che il medico di base che aveva visitato il piccolo il 24 ottobre aveva riferito di aver auscultato un respiro identico a quello documentato nel video del 19); che al momento della visita del 20 ottobre, in presenza di una sintomatologia, quale quella documentata nel video del giorno precedente, caratterizzata da respiro rumoroso, progressiva difficoltà respiratoria e tipica tonalità della voce, i medici imputati, specialisti pediatri, avrebbero dovuto orientarsi verso il sospetto diagnostico di un restringimento delle vie aeree superiori: se è vero che, in assenza di elementi documentali che evidenziassero una storia di intubazione difficoltosa e/o prolungata, poteva risultare difficile sospettare una stenosi tracheale iatrogena, doveva comunque essere sospettata ed approfondita una ostruzione alle vie aeree superiori; i sintomi presentati dal piccolo paziente non erano sovrapponibili a quelli della tracheite, giacché quest’ultima produce una modifica della voce di tipo differente, ovvero una afonia improvvisa, mentre la stenosi produce una modifica timbrica graduale della voce che nel caso in esame era stata rilevata dai genitori, i quali avevano riferito di una voce più infantile.

Se trattata per tempo la stenosi, il bambino si sarebbe potuto salvare con elevata probabilità

Ancora, dalla Ctu era emerso che l’esito favorevole del test di ossigenazione effettuato dalla dottoressa imputata in ospedale, in presenza di una aumentata frequenza cardiaca, non era sufficiente a escludere l’ipotesi diagnostica di stenosi delle vie aeree superiori, in quanto la situazione avrebbe dovuto essere valutata tramite emogasanalisi o comunque con la pulsossimetria durante un modesto sforzo fisico; le condizioni del bambino in occasione della visita del 20 ottobre non erano predittive di un imminente pericolo di vita, in quanto lo stridore percepibile dal video era di intensità moderata e non vi erano altri segni clinici indicativi di una ostruzione grave. Tuttavia, i ripetuti accessi presso la struttura ospedaliera e la storia clinica del paziente avrebbero dovuto indurre prudentemente a disporre il ricovero, anche non immediato, ma da attuare nei giorni successivi previa doverosa interazione con i genitori; gli esami strumentali utili ai fini della corretta diagnosi erano la tomografia computerizzata (TC) e la endoscopia delle vie aeree e non vi erano controindicazioni alla luce delle condizioni cliniche del bambino alla loro esecuzione; la stenosi tracheale avrebbe dovuto essere trattata chirurgicamente in un centro clinico di elezione con percentuale di successo fra il 70 e 1’85 per cento. 

A fronte di tali risultanze, come detto, la Corte territoriale aveva ritenuto condotta esigibile da entrambi gli imputati quella di individuare i sintomi della occlusione e programmare nell’arco di pochi giorni gli esami diagnostici volti a confermare il sospetto di stenosi. Lo spiegamento della richiesta perizia e diligenza connessa alla qualifica professionale avrebbe consentito con elevata verosimiglianza, riguardata ex ante, di pervenire alla tempestiva ospedalizzazione e rimozione chirurgica della causa ostruttiva. Dall’omissione della condotta esigibile – formulazione di sospetto diagnostico generico di occlusione delle alte vie aeree, vigilanza del paziente e solleciti approfondimenti diagnostici con correlati interventi – era causalmente derivata, secondo i giudici, la morte, sopraggiunta in un intervallo di tempo tale per cui avrebbe potuto essere scongiurata. 

 

L’esigibilità della condotta differente

I ricorrenti, osserva la Suprema corte, non contestavano la ricostruzione delle sentenze di merito in ordine alla causa della morte identificata dai periti nella stenosi tracheale iatrogena post intubazione in un quadro di cronica bronchite, ma “articolano doglianze in punto esigibilità di una condotta differente rispetto a quella tenuta e il solo pediatra di guardia medica anche in punto nesso causale sotto il profilo della inutilità del comportamento alternativo corretto”. 

I fatti, osserva poi la Cassazione, sono stati posti in essere sotto la vigenza del d.l. 13 settembre 2012 n. 158 (cd Decreto Balduzzi) convertito nella legge 8 gennaio 2012 n. 189, a norma del quale “l’esercente della professione sanitaria non è punito se, nonostante abbia rispettato le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, versi in colpa lieve”. Tale disciplina, come noto, è stata poi sostituta dalla legge 8 marzo 2017 n. 24 (la cosiddetta legge Gelli Bianco) che ha introdotto l’art. 590 sexies cod. pen. a norma del quale “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che ovviamente le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alla specificità del caso concreto”.  

 

Non si trattava di colpa lieve

Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite, rammentano ancora gli Ermellini, l’abrogato art. 3 comma 1 D.L. n. 158 del 2012 si configura come “norma più favorevole rispetto all’art. 590 sexies cod. pen., sia in relazione alle condotte connotate da colpa lieve per negligenza o imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve per imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto”. Ma, pur facendo applicazione della normativa più favorevole, la Corte territoriale, scrivono i giudici del Palazzaccio, “ha conseguentemente indicato le ragioni per le quali entrambi gli imputati versassero in colpa non lieve, tanto sotto il profilo della imperizia, alla luce della violazione delle buone pratiche mediche, per il notevole scollamento tra la condotta tenuta e quella esigibile, quanto tanto sotto il profilo del grado molto elevato di negligenza nella assunzione e trattazione del caso clinico”. 

Con motivazioni pienamente correnti e condivisibili secondo la Suprema Corte, che entra nel merito del rigetto dei ricorsi. Quanto a quello della pediatra dell’ospedale, secondo la quale gli elementi di conoscenza nel momento in cui aveva visitato il bambino non erano tali per formulare la diagnosi corretta, i giudici del Palazzaccio ribadiscono come sia stato al contrario acclarato come alla data del 20 ottobre il bambino presentasse già i sintomi univoci di una ostruzione delle vie aeree superiori, e non già di una semplice tracheite: “oltre alle indicazioni provenienti dai genitori, era il filmato in atti del giorno antecedente alla visita a fotografare il quadro clinico apparso all’imputato e a documentare i chiari segni che avrebbero dovuto orientare, necessariamente, verso il sospetto di restringimento delle vie aeree superiori, ovvero il respiro rumoroso, la difficoltà respiratoria progressiva e la tonalità della voce (totalmente differente da quella che si registra in caso di tracheite che determina subitanea afonia), sintomi che, secondo i periti, non potevano essere intermittenti, ma ormai stabilizzati e semmai sempre più ingravescenti”. 

E qui la Cassazione ricorda che, così come imposto dalla giurisprudenza di legittimità, “secondo cui nel giudizio sulla gravità della colpa deve tenersi conto delle specifiche condizioni del soggetto agente, del suo grado di specializzazione, della situazione specifica in cui si è trovato ad operare e della natura della regola cautelare violata, i giudici di merito hanno, dunque, valutato la posizione dell’imputata e i profili di c.d. personalizzazione del rimprovero”. Imputata che, prosegue la sentenza della Suprema Corte, “aveva proceduto alla visita del bambino e lo aveva preso in carico, prescrivendo terapie quali l’aerosol e ipotizzando la diagnosi di tracheite, mentre i risultati della saturazione, per la grossolanità dello strumento utilizzato, non potevano essere tranquillizzanti, anche perché effettuati a riposo e comunque accompagnati dal dato dell’aumentata frequenza cardiaca: sulla base della sua specializzazione di medico pediatra in servizio presso l’ospedale e delle conoscenze che a tale specializzazione ineriscono, avendo visitato il bambino, avrebbe dovuto rilevare sintomi evidenti (ed anche piuttosto univoci), formulare (pur senza essere a conoscenza delle pregresse intubazioni) il sospetto diagnostico suindicato (quanto meno di generica ostruzione) e prescrivere accertamenti ulteriori atti a confermare il sospetto, a cui sarebbe seguito un intervento chirurgico, a quella data ancora salvifico”. 

Da tali premesse, i giudici territoriali hanno quindi tratto, in maniera coerente secondo gli Ermellini, il giudizio sulla gravità della colpa, intesa quale “deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato, rispetto al parametro dato dal complesso delle raccomandazioni contenute nelle linee guida di riferimento. La Corte ha ravvisato tale deviazione ragguardevole sotto il profilo della imperizia, alla luce della violazione delle buone pratiche mediche, per il notevole scollamento tra la condotta tenuta e quella esigibile, ed ha ravvisato altresì un grado molto elevato di negligenza nella assunzione e trattazione del caso clinico”. 

 

Confermato anche il messo causale tra omissioni e decesso

Ma infondati, secondo i giudici del Palazzaccio, sono anche i motivi di ricorso del pediatra di guardia medica. In relazione al primo, inerente alla causalità della colpa, i giudici come detto avevano rilevato che l’imputato fosse nelle condizioni di dover comprendere la gravità delle condizioni cliniche del minore. I genitori, che per la terza volta nel giro di pochi giorni, si erano presentati davanti ad un medico, gli avevano descritto i sintomi e il tipico stridore inspiratorio a quella data era già presente e stabilizzato. Secondo i giudici di merito l’imputato avrebbe dovuto, quindi, “percepire la tipicità del rumore inspiratorio e, nella visita, procedere alla auscultazione attenta anche sotto sforzo e alla verifica del battito cardiaco; si era invece limitato ad inviare il minore ad eseguire un esame alquanto semplice e grossolano come la rilevazione dell’ossigenazione del sangue attraverso la pulsossimetria, senza verificarne gli esiti, senza confrontarsi con il medico ospedaliero al quale aveva inviato il bambino e senza trarne le conclusioni sul piano diagnostico terapeutico”. Un percorso argomentativo “coerente con i dati processuali ed esente da censure sul piano più strettamente giuridico quanto a individuazione dei profili di colpa e della esigibilità della condotta imposta dalle buone prassi mediche e quanto alla ritenuta sussistenza del nesso causale fra il comportamento omesso e l’evento verificatosi sentenzia la Suprema corte.

Giustamente la Corte d’appello, secondo gli Ermellini, aveva ritenuto che il dottore, in ragione della sua qualifica di medico pediatra di turno nel servizio di continuità assistenziale pediatrica, avendo preso in carico il bambino e avendolo visitato, avrebbe dovuto rilevare sintomi evidenti (ed anche piuttosto univoci), formulare (pur senza essere a conoscenza delle pregresse intubazioni) il sospetto diagnostico suindicato (quanto meno di generica ostruzione) e prescrivere accertamenti ulteriori atti a confermare il sospetto, a cui sarebbe seguito un intervento chirurgico, a quella data ancora salvifico. 

 

L’errore diagnostico si configura anche quanto si omette di disporre esami doverosi

Sulla scorta delle conclusioni del collegio peritale, la Corte aveva dunque approfondito anche il tema della rilevanza del comportamento alternativo correttoevidenziando che gli esami che l’imputato avrebbe dovuto prescrivere avrebbero consentito di avvalorare il sospetto diagnostico e conseguentemente intervenire con un intervento chirurgico salvifico” proseguono i giudici del Palazzaccio, rammentando anche che “è peraltro principio ribadito nella giurisprudenza di legittimità che, in tema di colpa professionale medica, l’errore diagnostico si configuri non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga ad un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o disporre controlli e accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi”. 

 

Il principio di affidamento

Quanto al secondo motivo di doglianza del ricorso della guardia medica, inerente la mancata considerazione dell’affidamento tenuto dall’imputato sul corretto operato dei medici che nei giorni precedenti avevano visitato il bambino e formulato la diagnosi di bronchite e dell’assenza di ragioni per le quali egli si sarebbe dovuto discostare da tale diagnosi, la Cassazione spiega che “il principio dell’affidamento è stato elaborato dalla giurisprudenza di legittimità in relazione all’attività sanitaria in équipe, ovvero alle ipotesi in cui più soggetti, medici e/o paramedici, svolgono attività di cura del paziente in maniera coordinata, congiuntamente, nello stesso contesto spazio-temporale, ovvero in maniera disgiunta, in contesti temporali diversi, realizzando un fenomeno di successione nel tempo nella posizione di garanzia. Di regola, la plurisoggettività si accompagna ad una suddivisione di compiti, essendo ciascun operante specializzato in una determinata branca medica che deve trovare sbocco nella cura del paziente. Si è, quindi, sostenuto che, nell’ambito del gruppo, ciascun medico è responsabile per l’errore proprio, avente genesi nella violazione delle regole cautelari specificamente previste per il proprio settore di specializzazione, non potendo muoversi allo stesso alcun rimprovero per non aver previsto e/o non aver posto rimedio all’errore altrui causalmente collegato all’esito infausto”.

E, soprattutto, la Cassazione chiarisce che “nei casi in cui il garante precedente abbia posto in essere una condotta colposa che abbia avuto efficacia causale nella determinazione dell’evento, unitamente alla condotta colposa del garante successivo, persiste la responsabilità anche del primo in base al principio di equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere carattere di eccezionalità ed imprevedibilità”.

Nel caso in esame, non vi era stata un’azione in equipe, “bensì interventi distinti e svincolati l’uno dall’altro da parte di più sanitari. Nessun rilievo, pertanto, potevano assumere, ai fini della valutazione della condotta dell’imputato, le diagnosi formulate da altri medici che prima di lui erano intervenuti. La Corte ha puntualizzato, in ogni caso, che le condizioni del bambino al 20 ottobre erano certamente peggiorate rispetto ai giorni precedenti e che a quella data, come dimostrato dal filmato del giorno 19, i sintomi tipici della ostruzione delle vie aeree superiori erano ormai conclamati, sicché le situazioni di fatto valutate dai diversi sanitari che avevano avuto modo di visitare il bambino non erano comunque equiparabili”. 

 

Il giudizio controfattuale

In relazione poi al terzo motivo del ricorso, inerente alla causalità, gli Ermellini osservano che per l’esistenza del nesso di causa, in base al disposto degli artt. 40 e 41 cod. pen., occorrono due elementi: il primo, positivo, “secondo il quale la condotta umana deve aver posto una condizione dell’evento“; il secondo, negativo, “per cui il risultato non deve essere conseguenza dell’intervento di fattori eccezionali. In particolare, quando si tratta di condotte omissive, il primo elemento si rivela nella regola cautelare violata, se l’evento rappresenta la concretizzazione del rischio creato con un non facere da colui che riveste la posizione di garanzia. L’evento è causalmente riconducibile all’omissione qualora, secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico, sia conseguenza certa o altamente probabile del mancato rispetto della regola cautelare violata. Il ricorso alle cognizioni scientifiche, nello studio degli eventi che si verificano in ambito sanitario, soddisfa i principi di tassatività e di certezza giuridica in quanto consente di imputare all’uomo un evento che può essere scientificamente considerato conseguenza della sua azione od omissione. Si è a tal fine sostenuto che in tema di reati colposi omissivi, la condotta alternativa diligente ha funzione preventiva e non deve assicurare “ex ante” alcuna certezza di evitare l’evento, purché sia certo che una condotta appropriata abbia significative probabilità di evitarlo. Il giudizio controfattuale mediante il quale si riconduce l’evento a una condotta omissiva, seguendo il ragionamento logico per cui il nesso causale sussiste solo nel caso in cui il comportamento alternativo corretto avrebbe avuto efficacia salvifica, è un giudizio ipotetico che si si serve di categorie logiche, scientifiche ed esperienziali”. 

Fatte queste premesse, la cassazione rimarca come i giudici di appello abbiano ancorato il giudizio controfattuale alle conclusioni dei periti, evidenziando che gli esami volti a confermare il doveroso sospetto diagnostico “avrebbero potuto essere effettuati in tempi brevi, nell’arco di una giornata, presso lo stesso ospedale, e che l’intervento chirurgico di rimozione della stenosi in un centro pediatrico con esperienza nel settore (presenti in varie città italiane), sarebbe stato praticabile, tenuto conto delle condizioni del paziente, e altresì salvifico con alto grado di razionalità logica, sicché poteva dirsi che la morte, intervenuta a distanza di cinque giorni rispetto alla condotta incriminata, sarebbe stata evitata dal comportamento alternativo corretto”. Per contro la assoluzione del medico di base che aveva visitato il bambino il giorno prima del decesso, era stata motivata sul rilievo che, “essendo stato egli chiamato in causa solo poche ore prima della morte, non era ipotizzabile un’efficienza causale della condotta alternativa da lui esigibile, oltre che sul rilievo per cui egli aveva comunque invitato i genitori a prendere contatto con gli specialisti che avevano operato il piccolo”. 

 

La gradazione della colpa

Infine, circa il quinto motivo di doglianza, riguardante la mancata motivazione in ordine alla gradazione della colpa ed alla mancata valorizzazione delle conclusioni dei consulenti di parte, anche qui per la Cassazione il percorso argomentativo adottato dai giudici di merito è congruo e immune da censure. “Si è già osservato – spiegano i giudici del Palazzaccio – che la Corte territoriale, pur facendo applicazione della normativa del c.d. decreto Balduzzi più favorevole, ha indicato le ragioni per le quali l’imputato versasse in colpa non lieve, tanto sotto il profilo della imperizia, alla luce della violazione delle buone pratiche mediche, per il notevole scollamento tra la condotta tenuta e quella esigibile, quanto sotto il profilo del grado molto elevato di negligenza nella assunzione e trattazione del caso clinico. Il giudizio sulla gradazione della colpa è stato formulato, così come imposto dalla giurisprudenza di legittimità, tenendo conto delle condizioni del soggetto agente e del suo grado di specializzazione, della situazione ambientale in cui il professionista si è trovato ad operare e del quadro patologico emerso nel corso della visita ed ha portato a concludere che si fosse verificata nel caso di specie quella marcata divaricazione rispetto all’agire appropriato che vale a connotare la colpa come grave”. 

Quanto poi al secondo profilo del quinto motivo, i giudici del Palazzaccio ricordano che la giurisprudenza di legittimità, nell’esaminare i rapporti tra la decisione del giudice e le determinazioni derivanti dalla perizia d’ufficio, “ha affermato che il giudice ha piena libertà di apprezzamento delle risultanze della perizia ma che, al contempo, tale libertà è temperata dall’obbligo di motivazione. In presenza di tesi scientifiche contrapposte, l’adesione alle conclusioni del perito d’ufficio può ritenersi adeguatamente motivata ove il giudice ne indichi l’attendibilità, mostrando di non aver ignorato le conclusioni dei consulenti tecnici di parte”. 

Ebbene, nel caso in esame “la Corte di Appello ha dato ampio conto dei profili di attendibilità delle conclusioni del collegio peritale, rimarcando il rigore e le precisione delle risposte fornite agli articolati quesiti formulati, ed ha altresì evidenziato che le conclusioni dei consulenti di parte non avevano confutato i risultati peritali, ma si erano piuttosto concentrate su aspetti parziali, senza riuscire a offrire una plausibile spiegazione scientifica delle scarne scelte terapeutiche adottate dall’imputato delle omissioni contestate” conclude la Suprema Corte, confermando quindi la condanna dei sue sanitari. 

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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