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Con la sentenza n. 17220/19 del 19 aprile 2019 la Corte d Cassazione ricorda che anche nei giudizi (penali) di responsabilità medica valgono le regole generali elaborate dalla giurisprudenza in tema di reato colposo omissivo improprio: per arrivare a una condanna, cioè, occorre che la colpa venga provata al di là di ogni ragionevole dubbio.

In primo grado condannati due infermieri

La Suprema Corte, nello specifico, si è occupata del caso di una giovane paziente deceduta presso il reparto di Medicina dell’ospedale di Pontecorvo.

Il Tribunale di Cassino aveva condannato due infermieri alla pena di un anno di reclusione (sospesa condizionalmente, ma solo subordinatamente all’adempimento delle obbligazioni civili nel termine di sei mesi dal giudicato) ed al risarcimento del danno nei confronti dei familiari della vittima, a cui aveva assegnato una provvisionale di trentamila euro, per il reato di omicidio colposo in concorso, per aver cagionato la morte della donna con colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia: non avevano effettuato l’osservazione diretta ed il monitoraggio dei parametri vitali della paziente e non avevano richiesto l’intervento del personale medico, nonostante la stessa avesse ripetutamente accusato uno stato di grave malessere.

In questo modo, non le era stato diagnosticato lo scompenso cardiaco in atto e non era stata praticata la necessaria terapia farmacologica. La Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, aveva invece dichiarato il non doversi procedere nei confronti dei due sanitari in ordine ai reati loro ascritti perché estinti per prescrizione, confermando integralmente le statuizioni civili.

 

Il ricorso per Cassazione dei sanitari

Contro questa sentenza hanno però presentato ricorso per Cassazione i due infermieri, lamentato, tra i vari motivi di doglianza la, contraddittorietà e illogicità della motivazione in relazione al nesso causale tra la loro presunta condotta colposa e l’evento morte, non essendo emersi dall’autopsia elementi certi in ordine alle precise cause che avevano determinato il decesso, attribuito, in via meramente deduttiva ed in base alla relazione di uno solo dei consulenti della pubblica accusa, ad uno scompenso cardiaco acuto, e non essendo stato svolto in alcun modo il giudizio controfattuale, valutando cioè il risultato a cui avrebbe potuto condurre il comportamento alternativo diligente degli imputati e se esso sarebbe bastato a salvare la paziente.

Ebbene, secondo la Suprema Corre questa censura è fondata. “Va sottolineato – osservano innanzitutto gli Ermellini – che nella sentenza impugnata non è dedicato alcun passaggio motivazionale al nesso di causalità, nonostante il relativo accertamento costituisse oggetto dell’appello dei ricorrenti”.

La motivazione sul nesso di causalità infatti era stata approfondita solo nella sentenza di primo grado, in cui si individuava come causa del decesso della paziente un lento scompenso cardiaco, facendosi riferimento alle valutazioni di entrambi i consulenti tecnici del Pubblico Ministero, e si aggiungeva anche che, “applicando al caso di specie, il criterio della controfattualità, deve affermarsi che l’immediato intervento mediante terapia respiratoria e terapia farmacologica avrebbe impedito, con un criterio di probabilità vicino alla certezza, il decesso di (omissis), tenuto conto della giovane età della stessa, dell’assenza di patologie pregresse ed anche della circostanza che non si è trattato di una morte improvvisa, ma, come evidenziato dai consulenti, di uno scompenso cardiaco lento”.

 

Il nesso di causalità e il giudizio controfattuale

Dalla stessa sentenza del Tribunale emergeva però – il solito problema – che il consulente tecnico del Pubblico Ministero, non era “in grado di dire se un soccorso più tempestivo avrebbe potuto avere efficacia”, laddove poi la Corte d’Appello non avrebbe escusso tutti i consulenti su questo aspetto determinante”.

“Da tali premesse – prosegue la sentenza della Suprema Corte – deriva che la conclusione dei giudici di merito, secondo cui «applicandosi al caso di specie il criterio della controfattualità deve affermarsi che l’immediato intervento mediante terapia respiratoria e farmacologica avrebbe impedito, con un criterio di probabilità vicino alla certezza, il decesso di (omissis), è del tutto avulsa dalle emergenze probatorie e, quindi, manifestamente illogica e lacunosa, non essendo stata neppure indicata la terapia farmacologica che avrebbe salvato la paziente e non essendosi neppure precisato se la terapia respiratoria sarebbe stata sufficiente in tal senso.

 

Il ragionevole dubbio non consente la condanna

La Cassazione asserisce che, in tema di istruzione dibattimentale, quando per la ricostruzione della eziologia dell’evento sia necessario svolgere indagini od acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, “il giudice non può prescindere dall’apporto della perizia per avvalersi direttamente di proprie, personali, specifiche competenze scientifiche e tecniche, perché l’impiego della scienza privata costituisce una violazione del principio del contraddittorio nell’iter di acquisizione della prova e del diritto delle parti di vedere applicato un metodo scientifico e di interloquire sulla validità dello stesso”.

E soprattutto ricorda l’insegnamento della sentenza delle Sezioni Unite, n. 30328/2002, secondo cui, “in tema di reato colposo omissivo improprio, l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del nesso causale tra condotta ed evento, e cioè il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell’omissione dell’agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo non consente di pervenire alla condanna”.

I giudici di merito, a cui si è rinviato, dovranno pertanto verificare la sussistenza del rapporto di causalità tra la condotta omissiva e negligente degli imputati e l’evento secondo questi principi, “sulla base non del solo coefficiente di probabilità statistica, ma alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

Nel giudizio di rinvio dovrà, però, essere individuata con esattezza la condotta che avrebbe escluso la morte della paziente e dovranno essere indicati con precisione gli elementi probatori in grado di giustificare tale conclusione”.

Un approccio completamente diverso da quello dell’azione civile, dove invece prevale il criterio del “più probabile che non”.

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Malasanità

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