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Rientra indubbiamente nel patrimonio della vittima il danno per lesioni della propria integrità psicofisica provocatogli dall’agonia protrattasi, fino alla morte, dopo un lasso di tempo pur minimamente apprezzabile trascorso dal fatto colposo di omessa diagnosi a fronte di una patologia già in corso. Lo ha chiarito il Tribunale di Milano, prima sezione civile, nella interessante sentenza n. 2814/2018, pronunciandosi sul ricorso dei parenti (moglie, figli, madre e fratelli) di un uomo della cui morte essi ritenevano responsabile la struttura ospedaliera che lo aveva accolto in occasione di un primo malore, dimettendolo il giorno stesso e consigliandogli antinfiammatori ove la sintomatologia (forte dolore al torace) si fosse ripresentata. Ciononostante, l’uomo alcuni giorni dopo è deceduto a causa di un arresto cardiocircolatorio provocato, secondo le relazioni medico legali, da una dissecazione aortica già in corso all’epoca dell’accesso al pronto soccorso e non correttamente diagnosticata, pur presentando il paziente segnali clinici che avrebbero dovuto porre in allarme il personale medico.

Per i ricorrenti un diverso e più attento approccio avrebbe garantito la sopravvivenza del paziente: pertanto, essi hanno agito per vedere condannata condanna la struttura sanitaria al risarcimento di danni non patrimoniali e patrimoniali subiti iure proprio e iure ereditario. Il Tribunale ha ritenuto accertata la responsabilità professionale a capo della struttura per inadempimento del c.d. contratto di spedalità o assistenza sanitaria, contratto atipico che la giurisprudenza ritiene concluso (e perfezionato anche per facta concludentia) al momento dell’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale (cfr. Cass. SS.UU. 577/08 e Cass. N. 8826/2007).

Ma nella pronuncia, in particolare, i giudici meneghini offrono una rilevante interpretazione sul tema del risarcimento per il danno da agonia del congiunto, trasmissibile iure hereditatis ai discendenti, che si sostanzia nello stato di sofferenza spirituale patito dalla vittima a causa dell’avvicinarsi della fine-vita. Il Tribunale registra, sul punto, i diversi orientamenti giurisprudenziali: uno indica tale danno come “biologico terminale” liquidabile come invalidità assoluta temporanea, sia utilizzando il criterio equitativo puro che le apposite tabelle, mentre altro orientamento lo classifica come danno “catastrofale” (con riferimento alla sofferenza provata dalla vittima nella cosciente attesa della morte seguita dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni). Ancora, si legge in sentenza, per talune decisioni il danno “catastrofale” ha natura di danno morale soggettivo e per altre, di danno biologico psichico.

Tuttavia, i giudici meneghini ritengono che da tali incertezze non derivi alcuna differenza rilevante sul piano concreto della liquidazione dei danni perché “anche in caso di utilizzazione delle tabelle di liquidazione del danno biologico psichico dovrà procedersi alla massima personalizzazione per adeguare il risarcimento alle peculiarità del caso concreto, con risultati sostanzialmente non lontani da quelli raggiungibili con l’utilizzazione del criterio equitativo puro utilizzato per la liquidazione del danno morale“.

Tale danno, chiariscono i giudici, ingravescente con estrema rapidità e che si è risolto con il decesso, è indubbiamente entrato nel patrimonio della vittima quale lesione alla propria integrità psicofisica e tale tipologia di lesione “può essere liquidata attraverso l’applicazione del sistema tabellare, riconosciuto dalla Corte di legittimità come parametro equitativo che consente di fare emergere i parametri differenziati in relazione al grado della lesione oltre che garantire una uniformità e prevedibilità delle decisioni“.

Differenze, tuttavia, rilevano sul piano probatorio in quanto il Tribunale rammenta come il danno catastrofale, riconducibile alla categoria del danno morale soggettivo, a differenza del danno biologico, richieda la prova della “lucida e cosciente percezione dell’ineluttibilità della propria fine” da parte della vittima (ex multis, Cass. n. 13537/2014).

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Malasanità

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