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La 45enne di Torre di Mosto pochi giorni dopo è stata stroncata da infarto. La Procura contesta al dottore gravi errori ed omissioni: la paziente si sarebbe potuta salvare

Si avvicina l’ora della giustizia per i familiari di Debora Berto. Il Pubblico Ministero della Procura di Venezia, dott.ssa Federica Baccaglini, a conclusione delle indagini preliminari del procedimento penale per malpractice medica per la tragica, prematura ed evitabile morte della quarantacinquenne e compianta commerciante di Torre di Mosto (Ve), ha chiesto il rinvio a giudizio, per l’ipotesi di reato di omicidio colposo, per il medico del Pronto soccorso dell’ospedale di San Donà di Piave dell’Asl 4 Veneto Orientale che l’aveva dimessa, nonostante i già chiari sintomi dell’infarto che l’avrebbe poi stroncata, in casa, pochi giorni dopo: si tratta di G. B., 36 anni, residente nel centro storico di Venezia.

Il Sostituto procuratore imputa al sanitario di aver causato il decesso della paziente, avvenuto per “arresto cardio-respiratorio conseguente ad infarto miocardio acuto indotto da trombosi della coronaria discendente anteriore”, per “colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia e inosservanza delle Linee Guida Europee in tema di Metodologia Accertativa e Criteriologia Valutativa in casi di Responsabilità Professionale Medica nonché delle raccomandazioni della buona pratica clinica in emergenza” per citare la richiesta, riscontrata dal Gip, dott.ssa Daniela Defazio, con la fissazione dell’udienza preliminare del processo per il prossimo 10 luglio 2023, alle 11, presso la Cittadella della Giustizia di piazzale Roma.

La donna, l’11 dicembre 2020, alle 10.40, aveva fatto accesso al Pronto Soccorso di San Donà lamentando, sempre per citare l’atto del magistrato, “algie all’avambraccio e polso sinistri da qualche giorno, con lieve impotenza funzionale senza dolore alla palpazione”. L’imputato tuttavia “ometteva di indagare eventi scatenanti o che precedono l’inizio della sintomatologia, la qualità del sintomo e la severità, non attenendosi dunque alle raccomandazioni della buona pratica clinica in emergenza” prosegue il Pm. In particolare, nonostante la sussistenza di un “dolore persistente localizzato in una sede tipica di irradiazione del dolore toracico e in assenza di elementi clinico documentali che ne attribuissero la sussistenza a un processo infettivo-infiammatorio locale”, il medico “non eseguiva gli accertamenti laboratoristici (dosaggio troponina) e strumentali, l’Ecocardiogramma, non attenendosi dunque alle Linee Guida Esc 2015”.

Omissioni fatali perché tali accertamenti, prosegue la dott.ssa Baccaglini, “avrebbero permesso, con elevata probabilità, di diagnosticare una sindrome coronarica acuta: la diagnosi precoce di infarto avrebbe consentito l’immediato ricovero ospedaliero con esecuzione di procedura di angioplastica primaria che avrebbe consentito, con criterio di elevata probabilità, di evitare il decesso”. Invece, dopo neanche due ore dal suo arrivo in pronto soccorso, alle 12.30 di quello stesso giorno, il dottore, inquadrando e gestendo la problematica come di natura ortopedica e non cardiaca, ha frettolosamente dimesso la signora Berto con la diagnosi di “brachialgia”, prescrivendole una terapia farmacologica antidolorifica per cinque giorni e una risonanza magnetica al rachide cervicale, fissata per il 16 dicembre, e rimandandola al suo medico di base.

Il resto è tristemente noto. Il 16 dicembre alle 12.45, Debora Berto ha accusato un malore presso la sua abitazione, accasciandosi su un tavolo. Nonostante gli immediati soccorsi del figlio e del marito Mirko, che era in casa e le ha praticato il massaggio cardiaco per 17 lunghi minuti in attesa dell’arrivo dell’ambulanza del Suem, subito allertato, e di quelli dei sanitari, per la quarantacinquenne non c’è stato nulla da fare.

I familiari avevano espresso da subito tutte le loro perplessità su come il caso della loro congiunta era stato affrontato al Pronto soccorso sandonatese: attraverso il responsabile della sede di San Donà, Riccardo Vizzi, per fare piena luce sui fatti ed eventuali responsabilità mediche, si sono quindi affidati a Studio3A-Valore S.p.A., società specializzata a livello nazionale nel risarcimento danni e nella tutela dei diritti dei cittadini, che, vagliando la documentazione clinica disponibile, ha subito rilevato profili di malpractice.

E’ stato dunque presentato un esposto e riscontrando la denuncia querela la Procura di Venezia ha aperto un fascicolo, inizialmente per il tramite del Pubblico Ministero dott.ssa Laura Villan, iscrivendo nel registro degli indagati il medico dell’Ulss 4 che aveva visitato e seguito la paziente in occasione del suo accesso al pronto soccorso cinque giorni prima del dramma. Il magistrato, inoltre, ha subito disposto l’autopsia sulla salma per chiarire le cause della morte e accertare se potesse essere stata determinata da condotte mediche inadeguate, affidando l’incarico al dott. Giovanni Cecchetto, dell’Istituto di Medicina Legale dell’ospedale di Padova, che poi ha chiesto e ottenuto di farsi assistere nella sua perizia anche dal dott. Stefano Kusstatscher, direttore dell’Unità Operativa Rischio Clinico dell’Azienda Zero: alle operazioni peritali, quale consulente di parte della famiglia di Debora Berto, ha partecipato anche il dott. El Mazloum Rafi, messo a disposizione da Studio3A.

Nel loro elaborato peritale i Ctu hanno innanzitutto confermato la natura cardiaca del decesso, dovuto, spiegano, “a un arresto cario-respiratorio da aritmia indotta da infarto miocardico acuto”, che, aggiungono, “era retrodatatile di oltre cinque giorni e già presente al momento dell’accesso al Pronto Soccorso, essendo altamente probabile che la sintomatologia algica fosse riconducibile ad esso”. Pertanto, proseguono, arrivando al quesito centrale della consulenza tecnica, a fronte della sintomatologia segnalata “l’inquadramento diagnostico del dolore messo in atto del medico del Pronto soccorso risulta inadeguato, ovvero caratterizzato da omessa esecuzione di accertamenti diagnostici, con conseguente errore diagnostico”.

Infine i consulenti tecnici hanno risposto positivamente anche al cosiddetto giudizio contro-fattuale. “La mortalità a 30 giorni dal ricovero per infarto acuto al miocardio continua diminuire, nel 2017 è scesa all’8,7%: la media italiana è tra le più basse dei Paesi occidentali (…). La struttura ospedaliera di San Donà di Piave è dotata di una Unità Operativa di Terapia Intensiva Cardiologica e di una UO di Emodinamica, dove la paziente poteva essere immediatamente ricoverata e sottoposta a ricanalizzazione nel vaso coronarico: è stata infatti rilevata una coronopatia con trombosi che interessava unicamente la coronaria discendente anteriore, l’infarto miocardico era localizzato solo a livello del setto interventricolare. L’immediato ricovero ospedaliero, con esecuzione di una procedura di angioplastica primaria, avrebbe consentito, con criterio di elevata probabilità, di evitare la morte. Pertanto, sussiste (anche) il nesso di causalità tra l’errore diagnostico e il decesso”.

Conclusioni inequivocabili che hanno convinto la Procura della piena sostenibilità delle accuse nei confronti del dottore anche in un processo penale, che acuiscono i rimpianti dei familiari della vittima, ma con essi anche il desiderio di rendere piena giustizia alla loro cara, oltre all’auspicio di un’assunzione di responsabilità anche da parte dell’Azienda sanitaria sul piano risarcitorio.

Caso seguito da:

Dott. Riccardo Vizzi

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Categoria:

Malasanità

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