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Cosa accade e come va inquadrato un caso di malpractice medica quando a determinarlo non è un unico errore ma più comportamenti omissivi da parte di più sanitari?

Interessante al riguardo è la sentenza n. 36502/23 depositata il 29 dicembre 2023 con la quale la Cassazione ha affrontato vari concetti cruciali in tema di malasanità quali nesso causale, elemento soggettivo, apporto causale e, appunto, pluralità di condotte.

I congiunti di una donna vittima di un caso di malasanità citano medici e Azienda sanitaria

I congiunti di una donna vittima di un caso di malasanità avevano citato in giudizio dinanzi al Tribunale di Crotone il primario della divisione di Chirurgia del presidio ospedaliero, l’aiuto primario e la Asl, per vedere accertata la loro responsabilità per la morte prematura della loro cara.

La paziente era giunta al pronto soccorso dell’ospedale alle 3 di notte lamentando forti dolori addominali. Qui era stata visitata dal medico il quale, riscontrata un’ernia ombelicale, aveva eseguito una manovra di rientro, pressando con forza sulla parte che fuoriusciva per riportare l’ernia all’interno dell’addome. Tale manovra, tuttavia, non era stata risolutiva, perché successivamente, dopo una radiografia del torace, la paziente era stata sottoposta a un intervento chirurgico e poi era stata trasferita al reparto di chirurgia intensiva, dove purtroppo era deceduta.

Il Tribunale di Crotone, con la sentenza n. 477/2014, aveva però rigettato la domanda risarcitoria dei congiunti, perché, sulla scorta della consulenza tecnica d’ufficio espletata, i giudici avevano ritenuto non provato che l’evento dannoso fosse dipeso da imperizia o negligenza e che non fosse stato soddisfatto, da parte dei familiari della vittima, l’onere di provare il nesso di causa tra le azioni dei sanitari e la morte della paziente.

La Corte d’Appello di Catanzaro, tuttavia, avanti la quale era stato proposto gravame dai danneggiati, disposta la rinnovazione della Ctu, con la sentenza n. 970/2021 aveva riformato la sentenza di primo grado condannando l’Azienda Sanitaria Provinciale al pagamento di oltre cinquecentomila euro in favore dei congiunti.

In sintesi, i giudici di seconde cure avevano ritenuto il decesso della donna, che aveva sessant’anni, per citare la sentenza “conseguente alla perforazione della parete posteriore del colon trasverso, dipesa con ogni probabilità da un’area ischemica del colon o di un diverticolo – e non già dalla manovra di riduzione del vistoso laparocele -, la quale aveva però, a sua volta, provocato una peritonite stercoracea che aveva indotto uno shock settico con insufficienza multiorgano”.

 

Accertata la responsabilità in capo ad alcuni dei sanitari che avevano preso in cura la paziente

La Corte territoriale aveva escluso ogni addebito a carico del medico del pronto soccorso per non avere chiesto con immediatezza gli esami di laboratorio necessari per diagnosticare la perforazione del colon e per non avere somministrato la terapia adeguata, perché aveva lasciato l’ospedale per fine turno alle ore 8; aveva escluso anche ogni responsabilità del primario del reparto di chirurgia, il quale non aveva preso in carico la paziente, e non era risultato che avesse omesso di dare direttive per il trattamento del caso, né era responsabile della modalità di trattamento farmacologico; aveva tuttavia ravvisato una responsabilità per l’omessa sottoposizione della paziente terapia antibiotica anche in fase intraoperatoria, dopo l’evidenza ecografica, con conseguente responsabilità dei sanitari che ebbero in cura la donna a partire dalle ore 9 del mattino.

Contro la sentenza di condanna l’Azienda Sanitaria Provinciale ha quindi proposto ricorso per Cassazione lamentando in primis, oltre alla insussistenza del nesso causale, che la Corte d’Appello sarebbe incorsa nella violazione del principio di corrispondenza tra richiesto e pronunciato, perché i familiari delle vittima attori avevano chiesto l’accertamento della responsabilità dei due medici di chirurgia dell’ospedale per ritardo nella diagnosi, per imperita esecuzione della manovra di riduzione del laparocele e per ritardo nella esecuzione dell’intervento chirurgico. In altri termini, l’ASP era stata chiamata a rispondere esclusivamente quale datrice di lavoro, mentre la Corte d’Appello l’avrebbe condannata per fatti costitutivi non dedotti dai congiunti che avevano intrapreso la causa e non imputabili ai sanitari che erano stati convenuti con lei.

Ma la Suprema Corte ha rigettato le doglianze. I giudici del Palazzaccio hanno in primo luogo rilevato come l’Asp avesse riportato alla Cassazione solo stralci dell’atto di citazione e dunque non aveva fornito gli elementi necessari per comprendere se la Corte di Appello avesse alterato gli elementi dell’azione (petitum e causa petendi) e sostituito i fatti costitutivi della pretesa, emettendo un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato) ovvero attribuendo o negando un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato).

 

Asp citata non solo come datrice di lavoro dei due chirurghi ma per la condotta di tutti i sanitari

Ma Soprattutto, i giudici del Palazzaccio hanno evidenziato come la Corte territoriale avesse dato atto, nella sentenza impugnata, che la domanda risarcitoria non era stata rivolta nei confronti della Asp solo quale datrice di lavoro del primario e dell’aiuto primario, “ma, più in generale, in relazione alla condotta di tutti i medici che hanno avuto in cura la paziente nel reparto di chirurgia, con specifico riguardo ai ritardi ed alla insufficienza delle cure profuse nell’arco temporale successivo all’esecuzione dell’ecografia addominale sino al momento dell’intervento“.

Riguardo poi il nesso causale, l’ASP aveva censurato la statuizione con cui la Corte d’Appello aveva ritenuto di ravvisare un comportamento colposo omissivo dei sanitari che ebbero in cura la paziente dalle 9 del mattino successivo a quello del ricovero, per non avere adottato le opportune terapie, in primis quella antibiotica. Secondo l’Azienda Sanitaria i giudici di merito avrebbero confuso e sovrapposto l’indagine sul nesso causale con quella sull’elemento soggettivo dell’illecito attribuendo rilievo causale al ritardo nella somministrazione della terapia antibiotica senza determinare il coefficiente statistico salvifico idoneo a ricondurre causalmente l’evento al comportamento omissivo e senza alcuna valutazione circa l’incidenza delle altre concause umane rilevate dal Ctu: mancata idratazione, mancato posizionamento del sondino gastrico e del catetere vescicale.

Ma anche in questo caso la Cassazione ha rigettato il motivo di ricorso obiettando che “l’elemento causale assolve alla duplice finalità di criterio di imputazione del fatto illecito e di regola probatoria per il successivo accertamento dell’entità delle conseguenze pregiudizievoli del fatto che si traducono in danno risarcibile e constando il relativo accertamento di due fasi, quella del nesso tra condotta ed evento e quella del nesso tra evento e danno”.

 

Nesso causale e pluralità di condotte

La Suprema Corte spiega quindi che il nesso causale è la misura della relazione probabilistica e concreta (svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento e fatto dannoso. L’elemento soggettivo dell’illecito addotto (errando) dalla ASP riguarda invece tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale.

La Corte d’Appello, in buona sostanza, ha ritenuto che, se la paziente fosse stata idratata, sottoposta a terapia antibiotica a largo spettro immediatamente dopo l’esito della ecografia addominale, se fossero stati posizionati il sondino gastrico e il catetere vescicale e se fosse stata tempestivamente operata, l’evento morte, secondo il criterio del più probabile che non, non si sarebbe verificato.

Pretendere che la Corte territoriale, rimarcano gli Ermellini, dovesse quantificare l’apporto causale della mancata somministrazione di antibiotici è una considerazione errata in diritto. Ciò che è sufficiente per integrare la responsabilità è l’accertamento circa la riconducibilità causale del medesimo “fatto dannoso”, in questo caso al decesso, ad una pluralità di condotte.

La Cassazione conclude quindi asserendo che non è rilevante se i fatti causativi del decesso siano riconducibili a condotte suscettibili di rilevare in ipotesi autonomamente sul piano storico-cronologico, è sufficiente che esse concorrano (secondo il principio della equivalenza delle concause non interruttive di cui all’art. 41 c.p.) alla produzione del medesimo evento di danno.

Traslando tali principi al caso in esame, i giudici di secondo grado, secondo la Suprema Corte, hanno deciso correttamente quando, aderendo alle conclusioni della Ctu, hanno evidenziato che gli effetti dannosi erano la conseguenza di plurimi comportamenti omissivi che hanno concorso a provocare il fatto dannoso, senza alcuna prevalenza di uno o alcuno sugli altri perché le condotte illecite non hanno prodotto distinti eventi di danno.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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