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Il risarcimento del danno conseguente ad un infortunio sul lavoro può essere quantificato sulla base di parametri risalenti esattamente a un secolo fa?

Ovviamente no, ma la conclusione non è affatto così scontata perché l’unica legge in materia di danno da incapacità lavorativa risale appunto al 1922, un giudice territoriale ha ritenuto che fosse l’unica applicabile e la vicenda è finita in Cassazione, la quale ha dovuto riaffermare, con l’ordinanza n. 7821/22 depositata il 10 marzo 2022, il principio che, a fronte della totale inadeguatezza di un criterio di liquidazione rappresentato da un Regio Decreto emanato subito dopo la prima guerra mondiale, per garantire l’integrale ristoro del danno si può fare ricorso anche a parametri non necessariamente tratti da fonti legislative, quali le tavole di mortalità elaborate dall’Istat, anche se pure queste non solo proprio attualissime risalendo al 1981.

In appello decurtato il risarcimento a un lavoratore vittima di infortunio

Con sentenza del 2016 la Corte d’appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza di primo grado nel resto interamente confermata, aveva rideterminato in 217.829,58 euro la somma spettante a un lavoratore a titolo di risarcimento del danno conseguente al grave infortunio sul lavoro patito nel maggio del 2008, più precisamente lo schiacciamento del piede con esiti di amputazione prossimale e difficoltà di deambulazione.

Il giudice applica un Regio Decreto per calcolare il danno da incapacità lavorativa

Il giudice di secondo grado aveva ritenuto che il danno da incapacità lavorativa, non potendosi applicare i criteri delle tavole di mortalità del 1981 elaborate dall’Istat, in quanto esse non hanno natura legislativa ed erano per di più contestate dalle parti, andasse riconosciuto e determinato sulla base delle tavole di mortalità del Regio Decreto n. 1403/1922 con esclusione dello scarto, ivi contemplato, del 10% tra vita fisica e vita lavorativa, onde ovviare alle carenze ed alla vetustà del criterio utilizzato. Inoltre, aveva concluso che nessun risarcimento fosse dovuto alla moglie dell’operaio, non essendo emerso un sicuro pregiudizio a carico di quest’ultima in conseguenza dell’infortunio occorso al marito.

 

L’utilizzo di parametri vetusti e il mancato ristoro integrale del danno

Il lavoratore e la moglie hanno proposto ricorso per Cassazione al quale ha resistito la compagnia di assicurazione dell’azienda, Generali. Per quel che qui preme, i ricorrenti principali hanno naturalmente dedotto la violazione del principio dell’integrale risarcimento del danno avendo la Corte d’appello applicato, nella liquidazione del danno patrimoniale da incidenza della lesione sulla capacità lavorativa dell’infortunato, il coefficiente di capitalizzazione previsto dal già citato regio decreto del 1922 che, come avevano già chiarito altre recenti pronunzie di legittimità, era vetusto in quanto rapportato ad un tasso dei saggi di interesse ed ad una durata della vita media privi di riscontro nell’attualità e, come tale, non garantiva l’effettivo e pieno ristoro del pregiudizio sofferto.

Inoltre, hanno contestualmente lamentato il mancato utilizzo del parametro di quantificazione più aggiornato, quale ad esempio quello delle tavole di mortalità attualizzate secondo i parametri ISTAT del 1981, contestandone la motivazione fornita per la loro non applicabilità, e cioè la loro natura non legislativa.

In definitiva, le doglianze erano sostanzialmente basate sulla denuncia di un errore di diritto del giudice di merito nel pretendere, in violazione del principio dell’integrale ristoro del danno, di ancorare la determinazione del quantum a un parametro necessariamente tratto da fonti legislative, escludendone altri in ragione della natura non legislativa della relativa fonte (come per le tavole di mortalità ISTAT del 1981). E per la Cassazione sono pienamente condivisibili, anche alla luce di recenti arresti della Suprema Corte, che, spiegano gli Ermellini, hanno “ripetutamente evidenziato la inadeguatezza del criterio di liquidazione rappresentato dalle tavole di mortalità di cui al R.D. n. 1403/1922 e la necessità di garantire l’integrale ristoro del danno attraverso il ricorso a parametri non necessariamente tratti da fonti legislative”.

 

Il principio dell’integralità del risarcimento

La sentenza impugnata, dunque, proseguono i giudici del Palazzaccio, è incorsa appunto in un errore di diritto ponendosi in contrasto “con il principio affermato da questa Corte secondo il quale il danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa specifica, in applicazione del principio dell’integralità del risarcimento sancito dall’artt. 1223 c.c., deve essere liquidato moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell’intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativi o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall’altro, coefficienti di capitalizzazione di maggiore affidamento, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano”.

La sentenza impugnata per quanto riguarda tali punti è stata pertanto cassata, con rinvio alla Corte di appello di Trieste, in diversa composizione, per il riesame della fattispecie alla luce del principio enunciato.

Per la cronaca, la Cassazione non ha invece accolto i motivi di doglianza della moglie in relazione all’asserito danno riflesso, ritenendo in questo caso corretta la valutazione della Corte d’appello secondo cui il pregiudizio sofferto dalla coniuge dell’infortunato in conseguenza della menomazione riportata dal marito sarebbe rimasto indimostrato.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Infortuni sul Lavoro

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