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Se un pedone avanti con gli anni scivola a causa dello stato di dissesto della pavimentazione, la Pubblica Amministrazione non può nutrire nei suoi confronti le stesse “pretese” in termini di attenzione e di “equilibrio” richieste a persone giovani o di mezza età, scaricandogli la colpa per l’accaduto. Al contrario, le responsabilità in capo all’Ente per la cosa in custodia sono molto più stringenti nel caso di anziani.

E’ una sentenza molto interessante a tutela dei danneggiati da uno degli infortuni per eccellenza, le cadute su strade e marciapiedi dissestati, quella pronunciata dal Tribunale di Napoli, II Sezione civile, il 22 luglio 2021.

 

Una donna cita il Comune per una caduta sul marciapiede causata da un tombino sconnesso

Il fatto n questione era successo il mattino del 25 giugno 2014 nel quartiere di Fuorigrotta. Una donna di 66 anni camminando a piedi sul marciapiede era inciampata su un tombino mal posizionato e rialzato rispetto al livello stradale ed era rovinata a terra procurandosi brutte ferite al torace e al gomito: trasportata all’ospedale Fatebenefratelli per le cure del caso, i sanitari le avevano diagnosticato una frattura pluriframmentaria sotto-olecranica sinistra del capitello radiale.

Al fatto avevano assistito diversi testimoni, i quali, oltre a confermare in toto la versione fornita dalla vittima, avevano puntualmente riferito come il tombino fosse privo della della necessaria segnalazione e di ogni indicazione di pericolo per i fruitori della strada.

Il comune di Napoli, tuttavia, non aveva riscontrato in alcun modo le legittime richieste danni della malcapitata, che gli aveva chiesto il risarcimento ritenendo che fosse da ascrivergli la responsabilità del sinistro in quanto ente proprietario e custode del tratto di strada ove si era verificata la caduta, con l’inevitabile citazione a giudizio innanzi il Tribunale cittadino.

 

Il Comune scarica la colpa sul pedone

L’amministrazione comunale si era costituita declinando ogni responsabilità, escludendo che la caduta si fosse verificata in conseguenza della cattiva manutenzione della strada ed eccependo la sussistenza di un caso fortuito costituito dalla condotta imprudente della danneggiata o, in subordine, l’applicabilità dell’art. 1227 c.c. per aver concorso essa stessa a cagionare il danno.

I giudici, respinte le riserve del Comune circa l’attendibilità dei testimoni, e sgombrato il campo dalle contestazioni sulla veridicità dell’evento, sono quindi scesi nel merito ricordando innanzitutto  che l’art. 2051 c.c. trova ben applicazione anche “nei confronti delle amministrazioni pubbliche, financo quando il bene produttore di danni sia un bene demaniale di vasta estensione, come una strada pubblica”, e, soprattutto, che “la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia prescinde dall’accertamento del carattere colposo dell’attività o del comportamento del custode e ha natura oggettiva, necessitando, per la sua configurabilità, del mero rapporto eziologico tra cosa ed evento; tale responsabilità prescinde, altresì, dall’accertamento della pericolosità della cosa stessa e sussiste in relazione a tutti i danni da essa cagionati, sia per la sua intrinseca natura, sia per l’insorgenza in essa di agenti dannosi, essendo esclusa solo dal caso fortuito, che può essere rappresentato – con effetto liberatorio totale o parziale – anche dal fatto del danneggiato, avente un’efficacia causale tale da interrompere del tutto il nesso eziologico tra la cosa e l’evento dannoso o da affiancarsi come ulteriore contributo utile nella produzione del danno”.

 

Mancata secondo i giudici la prova liberatoria da parte dell’Amministrazione

Dunque, ribadisce il Tribunale, quando il danneggiato dimostri che l’evento dannoso abbia avuto origine nella cosa posta nella custodia del convenuto, spetta a questi la dimostrazione del fortuito. Ora, nel caso specifico, proseguono i giudici, è pacifico che “l’evento lesivo è scaturito da una res affidata alla custodia dell’amministrazione”, vale a dire il tratto di strada sito in Napoli quartiere Fuorigrotta alla via Gabriele Rossetti, “in ragione dell’insorgenza di un agente dannoso quale la presenza di un tombino mal posizionato e rialzato rispetto al livello stradale privo della necessaria segnalazione e che mancava ogni indicazione di pericolo per i fruitori della strada”.

A questo punto il Comune, per liberarsi dell’obbligo risarcitorio, avrebbe dovuto provare l’esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale: “fattore che sarebbe potuto consistere anche nel fatto di un terzo o dello stesso danneggiato, avrebbe dovuto presentare i caratteri del fortuito e, quindi, dell’imprevedibilità e dell’eccezionalità del fatto medesimo

 

Situazione di pericolo prevedibile e nessuna condotta negligente della danneggiata

Questa prova, però, non è stata fornita. “Proprio la evidente assenza di adeguata manutenzione della pavimentazione rendeva assolutamente prevedibile la creazione della situazione di pericolo, ciò che vale comunque ad escludere la configurabilità del caso fortuito, il quale deve comunque presentare le già evidenziate caratteristiche di imprevedibilità ed eccezionalità” proseguono i giudici.

E soprattutto, evidenzia la sentenza, il Comune non ha dimostrato che la caduta fosse dovuta al comportamento negligente del pedone “tale da interrompere il nesso causale tra l’estrinsecarsi della pericolosità del bene in custodia e l’evento dannoso. (…) La condotta dell’attrice del camminare lungo la via pubblica non costituisce condotta di utilizzo abnorme della res ovvero eccezionale ed anzi costituisce condotta del tutto prevedibile. Né tale condotta può ritenersi negligente, imprevedibile e come tale idonea a liberare l’ente da responsabilità (…) L’istruttoria espletata dimostra al contrario che l’attrice è inciampata su una sconnessione della pavimentazione stradale non visibile sicché, anche utilizzando la massima diligenza nell’affrontare il tratto di strada, non si sarebbe potuta preventivamente avvedere della presenza e soprattutto della pericolosità della sconnessione”.

 

Come va accertata l’eventuale corresponsabilità della vittima

Infine, il Tribunale arriva al punto che più preme. “La responsabilità colposa (della vittima) postula una condotta che, sebbene non diretta alla produzione dell’evento lesivo, realizza detto evento per effetto della negligente condotta dell’agente. Alla sua base vi è allora la violazione di una o più regole cautelari di condotta, che determina un evento lesivo costituente realizzazione specifica del rischio che la norma precauzionale mirava a scongiurare. Più in particolare, alla base delle norme precauzionali di condotta vi sono regole di esperienza ricavate da giudizi ripetuti nel tempo sulla pericolosità dei comportamenti umani, e sui mezzi più adatti ad evitarne le conseguenze. Mezzi che devono essere non già quelli soggettivamente a disposizione dell’agente, ma oggettivamente imposti – in base alla migliore scienza ed esperienza – a carico di soggetti espletanti un determinato tipo di attività. Sotto questo profilo, si suole pertanto affermare che le regole di diligenza proprie dei vari contesti di riferimento rappresentano la “cristallizzazione” dei giudizi di prevedibilità ed evitabilità ripetuti nel tempo, non essendo altro la prevedibilità che la possibilità dell‘uomo coscienzioso ed avveduto di cogliere che un certo evento è legato alla violazione di un determinato dovere oggettivo di diligenza, che un certo evento è evitabile adottando determinate regole di prudenza”.

In definitiva, dunque, ciò che l’ordinamento rimprovera all’agente è di non aver osservato lo standard di diligenza richiesto dalla situazione concreta e con riferimento alle qualità soggettive dell’incolpato; di non avere cioè attivato quei poteri di controllo e di impulso che doveva e poteva attivare, in quel contesto spazio-temporale, al fine di scongiurare l’evento lesivo.

 

Non si può esigere dall’anziano la stessa attenzione, vista e prontezza di riflessi di un giovane

Ovviamente però, asseriscono con forza i giudici, nel dipingere questo “agente modello”, nel caso concreto, “non si può non tenere in considerazione l’età del danneggiato: se è vero che un’attenzione ed un acume particolare è richiesto ad una persona giovane o di media età, l’ordinamento deve avere una minor pretesa nei confronti di una persona anziana, e, nella fattispecie, la responsabilità del custode in caso di insidia va intesa in senso più stringente”.

Nello specifico, come detto, la signora aveva all’epoca dell’infortunio aveva 66 anni: il giudizio non può pertanto non ignorare che “il parametro di visibilità e conoscibilità della pericolosità della res varia al variare dell’età, posto che è di tutta evidenza che una medesima sconnessione può esigersi come visibile in un soggetto di giovane età e non esigersi viceversa per una persona anziana”, fermo restando comunque che nel caso in questione la sconnessione avrebbe rappresentato un insidia per tutti, essendo costituita da “un lieve dislivello che il tombino creava ed il tombino aveva il medesimo colore dell’asfalto del marciapiede”.

Ne deriva, conclude la sentenza, che “non è ravvisabile alcun difetto nell’utilizzo della diligenza esigibile, neanche sotto il profilo del concorso colposo del creditore”, con la conseguente dichiarazione di responsabilità del Comune di Napoli nella determinazione dell’evento dannoso occorso alla sessantaseienne e la sua condanna al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali patiti falla donna e quantificati in circa ventimila euro.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Responsabilità della Pubblica Amministrazione

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