Hai bisogno di aiuto?
Skip to main content

Le cadute su marciapiedi e strade dissestate rappresentano uno degli incidenti purtroppo più frequenti per chi va a piedi e, di riflesso, una delle materie del contendere più abituali con la Pubblica Amministrazione.

Ma quando il danneggiato può chiedere il risarcimento con buone possibilità che gli venga accolta la domanda? Cosa deve dimostrare? Al riguardo è particolarmente utile l’ordinanza n. 12166/21 depositata il 7 maggio 2021 con la quale la Cassazione, accogliendo il ricorso di una donna rovinata a terra dopo aver perso l’equilibrio su un tratto di marciapiede privo di mattonelle, ha colto l’occasione per fare chiarezza su molteplici aspetti della questione.

 

La causa intentata da una donna caduta su un marciapiede dissestato

L’episodio in questione risale al lontano 2003. Una signora, percorrendo a piedi in un viale di Bari, era rovinata a terra a causa di una buca presente sul marciapiede in prossimità di un incrocio, riportando diverse lesioni personali. La malcapitata aveva quindi chiesto i danni al Comune, ma in primo grado, nel 2014, il Tribunale cittadino aveva respinto la sua domanda. La danneggiata aveva quindi appellato la decisione e la Corte d’appello di Bari aveva accolto il gravame ma solo parzialmente, riconoscendo la concorrente responsabilità tra il pedone e l’Ente pubblico ma ascrivendole una percentuale di colpa maggioritaria nella causazione del sinistro nella misura del 70 per cento, e solo per il 30 per cento in capo al Comune.

La signora, tuttavia, non si è data per vinta ed è andata fino in fondo nella sua battaglia ricorrendo anche per Cassazione con sei motivi di doglianza. La ricorrente si doleva innanzitutto del fatto che la Corte territoriale, dopo aver riconosciuto l’applicabilità nella specie dell’art. 2051 del codice civile ed avere convenuto che nel caso specifico la buca sul marciapiede costituisse in effetti un’insidia, in quanto non visibile dalla sua posizione all’angolo della strada, anziché ritenere il Comune quale esclusivo responsabile del sinistro per non aver fornito la prova liberatoria a suo carico, avesse ritenuto lei “del tutto immotivatamente” corresponsabile e peraltro nella misura addirittura preponderante del 70 per cento, senza nemmeno indicare in che cosa sarebbe consistita la sua condotta colposa.

Doglianza che la Cassazione accoglie, approfittandone per operare tutta una serie di chiarimenti sulla materia. “Custodi”, premette la Suprema Corte, “sono tutti quei soggetti – pubblici o privati – che hanno il possesso o la detenzione della cosa in ragione della relativa disponibilità ed effettiva possibilità di controllo, cui fanno riscontro corrispondenti obblighi di vigilanza, controllo e diligenza, in base ai quali sono tenuti ad adottare tutte le misure idonee a prevenire ed impedire la produzione di danni a terzi, con lo sforzo adeguato alla natura e alla funzione della cosa e alle circostanze del caso concreto

 

La responsabilità per cose in custodia e i doveri del custode

Dunque, a carico dei proprietari o concessionari delle strade (e delle autostrade) è configurabile la responsabilità per cosa in custodia, disciplinata dall’art. 2051 c.c., essendo possibile ravvisare “un’effettiva possibilità di controllo sulla situazione della circolazione, delle carreggiate e delle relative pertinenze, riconducibile ad un rapporto di custodia” proseguono gli Ermellini, ricordando a quali doveri gli enti proprietari delle strade siano chiamati per garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, ex art. 14 C.d.S.: essi devono provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi; al controllo tecnico dell’efficienza delle strade e relative pertinenze; all’apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta.

Poteri e compiti che per le strade in concessione dall’ente proprietario, sono esercitati dal concessionario.

Dunque, in caso di sinistro avvenuto su strada, dei danni conseguenti ad omessa o insufficiente manutenzione il proprietario (art. 14 C.d.S.) o il custode (tale essendo anche il possessore, il detentore e il concessionario ) risponde ex art. 2051 c.c., “in ragione del particolare rapporto con la cosa che al medesimo deriva dalla disponibilità e dai poteri di effettivo controllo sulla medesima, salvo che dalla responsabilità presunta a suo carico esso si liberi dando la prova del fortuito” continuano i giudici del Palazzaccio.

 

Il danneggiato deve (solo) provare che il danno deriva dalla cosa

In altri termini, il danneggiato che domanda il risarcimento del pregiudizio sofferto in conseguenza dell’omessa o insufficiente manutenzione delle strade o di sue pertinenze invocando la responsabilità ex art. 2051 c.c. della pubblica amministrazione è tenuto a dare la prova che i danni subiti derivano dalla cosa, in relazione alle circostanze del caso concreto: prova che consiste nella dimostrazione del verificarsi dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con la cosa in custodia, “e può essere data anche con presunzioni, giacché la prova del danno è di per sé indice della sussistenza di un risultato “anomalo“, e cioè dell’obiettiva deviazione dal modello di condotta improntato ad adeguata diligenza che normalmente evita il danno”.

Al custode invece compete l’onere di fornire la prova liberatoria

Facendo eccezione alla regola generale di cui al combinato disposto degli art. 2043 e 2697 c.c.. alla stregua di una scelta effettuata dal legislatore, l’art. 2051 c.c. integra di fatto un’ipotesi di responsabilità caratterizzata da un criterio di inversione dell’onere della prova, “imponendo al custode, presunto responsabile, di dare la contraria prova liberatoria del fortuito – c.d. responsabilità aggravata.

Il custode, cioè, è invero tenuto, in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa gli attribuisce ,cui fanno riscontro corrispondenti obblighi di vigilanza, controllo e diligenza (in base ai quali è tenuto ad adottare tutte le misure idonee a prevenire ed impedire la produzione di danni a terzi, con lo sforzo adeguato alla natura e alla funzione della cosa e alle circostanze del caso concreto), nonché in ossequio al principio di c.d. vicinanza alla prova, a dimostrare che il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso.

Il altre parole, il custode deve dimostrare di avere espletato, con la diligenza adeguata alla natura e alla funzione della cosa in considerazione delle circostanze del caso concreto, tutte le attività di controllo, vigilanza e manutenzione su di esso gravanti in base a specifiche disposizioni normative ( nel caso, art. 14 Cds ), e del principio generale del neminem laedere, e che l’evento è stato determinato da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza neppure con la più diligente attività di manutenzione, ovvero che abbia esplicato la sua potenzialità offensiva prima che, con la diligenza richiesta dallo specifico caso concreto, fosse possibile l’intervento riparatore dell’ente custode e cioè allorquando, in caso di repentina e imprevedibile alterazione dello stato della strada e delle sue pertinenze, l’evento dannoso si sia verificato prima che l’ente proprietario abbia potuto rimuovere, nonostante l’attività di controllo espletata con diligenza per tempestivamente ovviarvi, la straordinaria ed imprevedibile condizione di pericolo determinatasi.

Questa inversione dell’onere probatorio incide indubbiamente sulla posizione sostanziale delle parti, agevolando la posizione del danneggiato e aggravando quella del danneggiante, sul quale grava anche il rischio del fatto ignoto.

 

La vittima non è dunque tenuta a provare l’insidia o il trabocchetto

Ricapitolando, il danneggiato è dunque tenuto a provare l’evento dannoso e la sua derivazione dalla cosa, ma non anche l’insidia o il trabocchetto, né la condotta omissiva o commissiva del custode. “L’insidia o trabocchetto, quale “figura sintomatica di colpa” – spiegano gli Ermellini – è stata ritenuta segnare invero il limite dell’agire discrezionale della P.A., frutto dell’elaborazione giurisprudenziale mediante ben sperimentate tecniche di giudizio, in base ad una valutazione di normalità, col preciso fine di meglio distribuire tra le parti l’onere probatorio”, che nella giurisprudenza, anche di legittimità, si era finito per addossare al danneggiato.

L’insidia o trabocchetto determinante pericolo occulto – prosegue la Cassazione – non è elemento costitutivo dell’illecito aquiliano, in quanto non previsto dalla regola generale ex art. 2043 c.c. né da quella speciale di cui all’art. 2051, bensì frutto dell’interpretazione giurisprudenziale che, al fine di limitare le ipotesi di responsabilità, ha finito per indebitamente gravare del relativo onere probatorio il danneggiato, con correlativo ingiustificato privilegio per la P.A, in contrasto con il principio cui risulta ispirato l’ordinamento di generale “favor” per il danneggiato, titolare della posizione giuridica soggettiva giuridicamente rilevante e tutelata invero lesa o violata dalla condotta dolosa o colposa altrui, che impone al relativo autore di rimuovere o ristorare, laddove non riesca a prevenirlo, il danno inferto.

A tale stregua, in quanto estraneo alle suindicate regole sia di “struttura” che funzionali, l’insidia o trabocchetto può ritenersi assumere semmai rilievo – quale esimente di responsabilità – sul piano del fortuito, nell’ambito della prova da parte della P.A. di avere, con lo sforzo diligente adeguato alla natura della cosa e alle circostanze del caso concreto, adottato tutte le misure idonee a prevenire che il bene demaniale presenti per l’utente una situazione di pericolo occulto ed arrechi danno, e che il verificatosi evento dannoso presenta nello specifico caso concreto i caratteri dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità non superabili con l’adeguata diligenza, ovvero l’evitabilità del danno solamente con l’impiego di mezzi (non già di entità meramente considerevole bensì ) straordinari.

Ora, quale presunto responsabile il custode può, in presenza di condotta che valga ad integrare la fattispecie ex art. 1227, primo comma, c.c., dedurre e provare il concorso di colpa del danneggiato, configurabile anche nei casi di responsabilità presunta ex art. 2051 c.c. del custode. E non vi è dubbio che la valutazione del rapporto tra la colpa del danneggiante e quella del danneggiato ai fini della determinazione della misura del concorso di colpa ex art. 1227. 10co., c.c. e quindi della liquidazione del risarcimento costituisce “un accertamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità in presenza di congrua motivazione” precisano gli Ermellini

 

Le contraddizioni della sentenza impugnata

Dopo questo lungo excursus, venendo quindi al caso specifico, la Suprema Corte conviene con il ricorrente nel concludere che la Corte di merito ha disatteso tali principi. Nel corso dell’indagine era infatti stato accertato che il pedone, mentre percorreva il viale di Bari, giunta all’incrocio con un’altra via, aveva svoltato sulla destra e era inciampata, rovinando al suolo, a causa di una buca presente sul marciapiede, proprio in prossimità dell’incrocio. Buca che si trovava, a quanto espressamente indicato nella sentenza impugnata, proprio all’incrocio tra le due strade ed era coperta, secondo la prospettiva visuale di chi svolta a destra, dallo spigolo del fabbricato che faceva angolo. Nonostante tutte queste premesse, però, alla fine i giudici, oltre a ridimensionare il termine “buca”, parlando di “parte di marciapiede priva di mattonelle di copertura“, non particolarmente profonda, in termini contraddittori sostengono che “non era perfettamente visibile”.

Dunque,  dopo avere correttamente ritenuto provata nella specie l’applicazione della disciplina ex art. 2051 c.c., la Corte di merito, pur avendo ravvisato che il Comune non aveva fornito la prova liberatoria, “anziché conseguentemente trarne la responsabilità esclusiva di quest’ultimo è pervenuta a ritenere la sussistenza nella specie del concorso di colpa della danneggiata, e a considerare quest’ultima addirittura prevalente” tira le fila del discorso la Suprema Corte.

Per altro verso – aggiunge la Cassazione , nell’impugnata sentenza non risulta dato debitamente conto se il Comune abbia dato prova di avere nella specie, con lo sforzo diligente adeguato alla natura della cosa e alle circostanze del caso concreto, adottato tutte le misure idonee a prevenire che il bene demaniale presentasse per l’utente una situazione di pericolo occulto ed arrecasse danno; che la situazione di pericolo in argomento sia stata nella specie provocata da una repentina ed imprevedibile alterazione dello stato della cosa, se l’evento dannoso si sia verificato prima che l’ente proprietario o gestore abbia potuto rimuovere, nonostante l’attività di controllo espletata con la dovuta diligenza al fine di tempestivamente ovviarvi il verificatosi evento dannoso presentasse nello specifico caso concreto i caratteri dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità non superabili con l’adeguata diligenza, ovvero il danno si presentasse evitabile solamente con l’impiego di mezzi ( non già di entità meramente considerevole bensì ) straordinari.

Insomma, la Corte di merito non ha dato conto delle ragioni per cui è giunta a ritenere la concorrente responsabilità dell’infortunata nella determinazione del danno, “non rinvenendosi argomento alcuno in ordine alla condotta colposa dalla medesima nella specie mantenuta. E pertanto risulta immotivata la percentuale di concorso di colpa posto a carico del Comune nella misura del 30% e di quest’ultima nella prevalente misura del 70%. Questo apprezzamento  – concludono gli Ermellini -, in questo caso non si sottrae al sindacato di legittimità, in quanto, secondo un principio consolidato, la valutazione della condotta rilevante ai sensi dell’art. 1227, primo co.. c.c.. e la determinazione del grado delle colpe concorrenti presuppone la valutazione complessiva dei fatti e dell’efficienza causale del comportamento colposo di ciascuno dei corresponsabili, solamente in tal caso potendo ritenersi dal giudice di merito assolto l’obbligo della motivazione con l’esprimere il proprio convincimento circa la maggiore o uguale gravità dell’una o dell’altra colpa”.

La motivazione fornita nello specifico, invece, non raggiunge “il limite del necessario minimo costituzionale, risultando pertanto come meramente apparente, in violazione dell’art. 132, 1° co. n. 4. c.p.c., e quindi in realtà insussistente e conseguentemente non sottraendosi al controllo in sede di legittimità”. La sentenza è stata quindi cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Bari, in diversa composizione per un nuovo esame, sulla scorta di questi principi.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

Vedi profilo →

Categoria:

Blog Responsabilità della Pubblica Amministrazione

Condividi

Affidati a
Studio3A

Nessun anticipo spese, pagamento solo a risarcimento avvenuto.

Contattaci

Articoli correlati


Skip to content