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Il datore di lavoro, per andare indenne da responsabilità in caso di malattia professionale, deve dimostrare di aver adottato ogni misura per tutelare la salute dei propri dipendenti, anche al di là degli “standard minimali” se la situazione specifica lo richieda, e questo vale a maggior ragione per quelle professioni che siano particolarmente esposte al rischio di ingenerare gravi patologie a chi le svolge, quali quella del tecnico radiologo, sottoposto per svariate ore al giorno alle radiazioni ionizzanti. E, va aggiunto, per un ente che ha proprio nella salute il suo scopo primario.

A riaffermare con forza questo principio, evidentemente non ancora chiaro in tutti i tribunali, la Corte di Cassazione, sezione Lavoro civile, con la “preziosa” ordinanza n. 679/23 depositata il 12 gennaio 2023 con la quale ha cassato la “discutibile” decisione dei giudici di merito che avevano mandato “assolta” un’Azienda ospedaliera nonostante le prescrizioni non rispettate che le erano state imposte dalla stessa… Asl attraverso, evidentemente, il servizio di Prevenzione e Sicurezza sul Lavoro.

Un radiologo cita per danni il suo ospedale per una patologia causata dal suo lavoro

Un radiologo aveva citato in causa l’Azienda ospedaliera di rilievo nazionale e di alta specializzazione “Garibaldi” di Catania per ottenere il risarcimento del danno patrimoniale biologico e morale subito in conseguenza della malattia che aveva contratto per l’appunto quale tecnico di radiologia impiegato presso l’azienda, ma la sua richiesta era stata rigettata sia dal tribunale sia, con sentenza del 2018, dalla Corte d’appello cittadina.

Quest’ultima non aveva eccepito sulla assodata origine professionale della patologia lamentata, ma aveva escluso la responsabilità colposa del datore di lavoro, ritenendo che avesse assicurato i livelli generali di radioprotezione previsti dalla normativa: secondo i giudici l’azienda doveva proteggere dagli effetti “deterministici” (ossia prevedibili) del superamento delle dosi soglia ma non anche da quelli “stocastici”, che hanno cioè solo carattere probabilistico e statistico, essendo l’obbligazione datoriale solo di mezzi e non di risultato.

 

Il tecnico lamenta le numerose prescrizioni violate

Il radiologo ha allora proposto ricorso per Cassazione contestando innanzitutto l’inversione dell’onere probatorio e sostenendo che, in presenza di una accertata tecnopatia, come nel suo caso, la prova liberatoria da responsabilità gravava sul datore di lavoro. La corte territoriale, invece, sempre secondo la tesi difensiva, non aveva considerato che per anni non erano state effettuate le rilevazioni sulle dosi dell’esposizione, né visite mediche in numero adeguato né, infine, erano stati migliorati i cabinati anti raggi X, come richiesto dalla stessa Asl in appositi verbali.

Il ricorrente ha poi censurato il fatto che la corte territoriale avesse trascurato il giudicato intervenuto in ordine alla nocività del luogo di lavoro e anche l’omesso esame del verbale dell’azienda sanitaria, che aveva sollecitato, come detto, il datore di lavoro al miglioramento degli esistenti cabinati anti raggi X, al fine di ridurre il livello di esposizione.

E per la Suprema Corte le doglianze sono pienamente fondate. Gli Ermellini ribadiscono come la sentenza impugnata avesse espressamente riconosciuto la derivazione causale della malattia dall’attività professionale, in quanto, per citare il relativo passaggio, “inconfutabilmente accertata dalla sentenza appellata e non fatta oggetto di impugnazione incidentale da parte datoriale”. La Cassazione sottolinea inoltre che, com’era emerso dal dibattimento, il lavoratore non era stato sottoposto a visita medica secondo la specifica periodicità semestrale prescritta e che la scheda personale dosimetrica e la cartella sanitaria di rischio del lavoratore stesso erano “inficiate” dalla mancanza di dati “nel non breve periodo” compreso tra l’agosto del 1982 e il dicembre 1991 (a cui si aggiungeva peraltro la mancanza di dati per il periodo precedente di due anni alle dipendenze di altro datore di lavoro).

I giudici del Palazzazzio evidenziano poi come i giudici territoriali avessero escluso la nocività dell’ambiente di lavoro e la colpa del datore in quanto, da dati dosimetrici, relativi generalmente al personale esposto, risultava sì una esposizione costante e pluriennale, ma non superiore nella media ai limiti legali, mentre per altro verso il lavoratore, a differenza dei colleghi di reparto, non aveva manifestato negli anni in questione alcuna patologia.

 

Per i radiologi vi è una presunzione assoluta di esposizione al rischio, non occorre dimostrarla

Ricostruito il ragionamento della Corte d’appello, la Cassazione viene quindi, sul piano del diritto, a quanto affermato in materia con pregressa sentenza dalla stessa Suprema Corte la quale, sia pur con riferimento all’indennità di rischio da radiazioni, prevista dall’art. 1 della I. n. 460 del 1988 e alle connesse provvidenze del congedo biologico, della sorveglianza dosimetrica e delle visite periodiche di controllo, aveva precisato che “per il personale medico e tecnico di radiologia sussiste una presunzione assoluta di esposizione a rischio, inerente alle mansioni naturalmente connesse alla qualifica rivestita”, mentre, al contrario, ricade sui lavoratori che non appartengano al settore radiologico e ne domandino l’attribuzione, l’onere di dimostrare l’esposizione non occasionale, né temporanea, a rischio analogo, in base ai criteri tecnici dettati dal d.lgs. n. 230 del 1995).

E non basta rispettare gli standard minimali quando il caso concreto richiede misure ulteriori

Non solo. Gli Ermellini richiamano un altro pronunciamento di legittimità in un caso simile (sent. n. 14468/13), in cui era stato affermato che l’art. 2087 cod. civ. “impone all’imprenditore di adottare non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo standard minimale fissato dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, ma anche le altre misure richieste in concreto dalla specificità dei rischi connessi tanto all’impiego di attrezzi e macchinari, quanto all’ambiente di lavoro, dovendosi verificare, in caso di malattia derivante dall’attività lavorativa, le misure in concreto adottate dal datore per evitare l’insorgenza della malattia”. E ciò anche alla luce del fatto che “la sicurezza del lavoratore costituisce un bene di rilevanza costituzionale (l’art. 41 comma secondo della Costituzione, che espressamente prevede limiti all’iniziativa privata per la sicurezza, ndr) che impone – a chi si avvalga di una prestazione lavorativa eseguita in stato di subordinazione – di anteporre al proprio legittimo profitto la sicurezza di chi tale prestazione esegua”.

Nello specifico, la Suprema Corte, in relazione ad un’azione risarcitoria proposta da un tecnico del reparto di Radiologia di una struttura ospedaliera per malattia tumorale contratta a causa di guasti ed eccessiva emissione di radiazioni dei macchinari, aveva respinto il ricorso del datore di lavoro contro la decisione di merito che ne aveva affermato la responsabilità, non avendo egli fornito la prova di avere adottato tutte le misure utili a prevenire i rischi legati alla prestazione lavorativa.

 

Nel reparto dove operava il ricorrente peraltro si erano registrati altri gravi casi di tecnopatia

Tornando infine al caso in questione, e arrivando al dunque, gli Ermellini sottolineando che, proprio nel reparto ove lavorava il ricorrente, si erano verificati altri casi di tecnopatie correlate all’esposizione: il verbale dell’Asl richiamava la leucemia di una lavoratrice poi deceduta e altra anomala patologia per un altro lavoratore del reparto.

Quindi, occorrevano un corretto monitoraggio dell’esposizione e macchinari più sicuri

Pertanto – asserisce la Suprema Corte – può ben dirsi che in concreto gli obblighi di protezione datoriale assumevano una consistenza concreta che richiedeva il corretto monitoraggio dell’esposizione innanzitutto e la sorveglianza sanitaria continua del personale esposto, e per altro verso, l’effettuazione degli interventi correttivi segnalati dalla Asl in funzione di prevenzione e protezione”, quali appunto i cabinati più sicuri e strumenti dotati di schermatura.

“La responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 cod. civ., pur non essendo di carattere oggettivo, deve ritenersi volta a sanzionare l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio – concludono quindi i giudici del Palazzaccio – Nel delineato contesto giurisprudenziale, peraltro del tutto in linea con diverse pronunce costituzionali in materia, la distinzione tra effetti deterministici e stocatici indicata in sentenza, al pari del richiamo ad una mera responsabilità di mezzi, risulta errata in diritto, oltre che incongrua rispetto al caso di specie”. La sentenza impugnata è stata pertanto cassato con rinvio della causa per un nuovo esame alla Corte d’Appello catanese in diversa composizione.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Infortuni sul Lavoro

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