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Con due recenti pronunciamenti la Cassazione ha affrontato due aspetti importanti della responsabilità medica: quello legato alla fondamentale figura dell’anestesista, “che è dotato di una spiccata autonomia”, e quella più in generale delle colpe dei sanitari di un’équipe per l’errore altrui.

 

Medici condannati per il decesso di una partoriente

Il primo caso riguarda la tragica morte avvenuta il 7 aprile 2010 di una partoriente per la quale la Corte d’Appello di Roma, confermando la sentenza del Tribunale capitolino dell’8 ottobre 2014, aveva condannato per omicidio colposo il chirurgo, che aveva avviato la paziente ad un parto cesareo gemellare senza monitorarne adeguatamente le condizioni e in una struttura inidonea a gestire eventuali complicanze, l’anestesista e il direttore sanitario della struttura.

I tre medici hanno proposto ricorso per Cassazione adducendo tutta una serie di motivi e la Suprema Corte, con la sentenza n. 32477/19 depositata il 22 luglio 2019, ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata perché i reati ascritti agli imputati erano estinti per intervenuta prescrizione, ma ha anche rigettato tutti i ricorsi ai fili civili, confermando quindi il risarcimento dovuto alle parti civili

Ciò che qui interessa, in particolare, sono le argomentazioni relative al ricorso proposto dalla anestesista che, in buona sostanza, asservita di non essere in alcun modo corresponsabile del tragico evento, e di aver agito nel rispetto della normativa in merito alla mancanza di dati aggiornati sulla puerpera (esame emocromocitometrico e della coagulazione) utili all’intervento, aggiungendo anche, a sua discolpa, che la cartella clinica non avrebbe contenuto dati inerenti all’anemia o a pregresse perdite ematiche che potessero indurre a particolare prudenza nel procedere all’operazione: insomma, a suo dire tutti i parametri erano corretti e il chirurgo non aveva evidenziato l’esistenza di problematiche particolari.

Secondo la Suprema Corte, tuttavia, i giudici di merito hanno fornito un’esauriente e dettagliata risposta a tutti i rilievi difensivi. “Eventuali carenze dei dati della cartella clinica – recita la sentenza degli Ermellini – non avrebbero dovuto tranquillizzare (omissis), la quale avrebbe dovuto valutare prudenzialmente alcuni dati conosciuti, come la pluralità di parti cesarei, l’obesità e il basso valore di microcitemica.

L’anestesista non poteva ritenersi esonerata da tali incombenze solo in ragione delle rassicurazioni verbali fornitele dal chirurgo, peraltro non dimostrate; avrebbe dovuto controllare accuratamente la cartella clinica, segnalando carenze ed errori inerenti a dati significativi (es. l’insufficiente anamnesi) e, in caso di accertate lacune, avrebbe dovuto comunque adottare tutte le precauzioni del caso”.

 

La spiccata “autonomia” e la responsabilità dell’anestesista

La responsabilità della anestesista, secondo i Giudici del Palazzaccio, è stata quindi affermata sulla base del consolidato orientamento della Cassazione, “secondo cui nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di elevata probabilità logica, che, a sua volta, deve essere fondato, oltre che su un ragionamento deduttivo basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo circa il ruolo salvifico della condotta omessa, elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e focalizzato sulle particolarità del caso concreto”.

Insomma, l’espletamento dei dovuti controlli da parte della sanitaria avrebbe consentito di scoprire le omissioni del chirurgo e di porvi rimedio.

La (omissis), per la spiccata autonomia riconosciutale in virtù della sua posizione di anestesista, non poteva affidarsi esclusivamente all’operato degli altri sanitari e, in particolare, contare sull’esperienza e sulle indicazioni di (omissis, il chirurgo) – sentenzia la Cassazione – In caso di condotte colpose indipendenti non può invocare il principio di affidamento l’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità e imprevedibilità”.

Per la Suprema Corte, infine, non rilevano neanche le altre giustificazioni addotte dall’anestesista relativamente alla conoscenza della paziente dalla sola mattina dell’intervento nonché alle carenze ed omissioni del medico chirurgo e della struttura ospedaliera circa l’assenza di una scorta di sangue.

Rientrano, infatti, nei principi della professione di anestesista gli obblighi di informarsi sulla storia del paziente e di gestione dell’approvvigionamento delle sacche ematiche e di provvedere alla trasfusione in caso di necessità. Anche in relazione a tale profilo rileva l’impossibilità di appellarsi al principio di affidamento”.

 

La responsabilità del medico nell’operazione d’équipe

Con la sentenza n. 30626/19 del 12 luglio, quindi, la Cassazione affronta in generale il tema della responsabilità del medico nell’ambito dell’operazione chirurgica d’équipe, stabilendo quando opera il principio per cui ogni sanitario è tenuto a vigilare sulla correttezza dell’attività altrui, se del caso ponendo rimedio ad errori “che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio”.

Anche qui il caso riguarda un procedimento penale per omicidio colposo per la morte di una paziente, avvenuta nel 2012 all’ospedale policlinico di Monza e deceduta a causa di una “multi organ Failure” conseguente alle gravi complicanze di un intervento di colecistectomia laparoscopica a cui ne erano seguiti diversi altri nel vano tentativo di porre rimedio ai problemi insorti.

Il Tribunale di Monza, in primo grado, concluse che gli interventi del 21 e del 28 dicembre 2011 effettuati in laparascopia erano stati inadeguati ad arrestare il patologico processo peritonitico che si era innescato, mentre il successivo intervento del 2 gennaio 2012 di resezione gastroduodenale escludente era stato eseguito con modalità gravemente imperite.

Ed erano stati pertanto condannati il primario del reparto di Chirurgia, che aveva gestito in prima persona la situazione della paziente a partire dal manifestarsi della prima complicanza ed aveva operato nel secondo, terzo e quarto intervento, e il suo aiuto anziano che aveva condiviso ogni sua scelta decisionale partecipando a tali interventi, mentre era stato mandato assolto l’aiuto più giovane che aveva mantenuto un ruolo marginale nelle operazioni.

La Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 2018, aveva quindi confermato la pronuncia di primo grado impugnata dai medici condannati, puntualizzando tuttavia che i profili di colpa a loro carico andavano circoscritti al terzo e al quarto intervento eseguiti il 28 dicembre 2011 e il 2 gennaio 2012.

L’aiuto chirurgo anziano ha così proposto ricorso anche per Cassazione, che lo ha ritenuto fondato.

Colgono nel segno le doglianze formulate sul ruolo da lui effettivamente svolto nell’ambito dell’equipe medica, riguardo alla preminente responsabilità del capo-equipe, individuato nella persona del primario, alla stregua delle emergenze probatorie segnalate nel ricorso ed in particolare delle dichiarazioni rese da quest’ultimo nel corso del dibattimento di primo grado che non sono state valutate nel loro complesso ma solo parzialmente” recita la sentenza della Suprema Corte, che definisce “viziato” l’iter motivazionale del pronunciamento della Corte d’Appello in relazione all’omessa verifica della sussistenza del nesso causale tra la condotta individuale posta in essere dal ricorrente e l’evento, in violazione delle regole cautelari che si assumono inosservate.

 

Il principio di affidamento e l’accertamento della condotta ruolo per ruolo

Una verifica che, spiegano gli Ermellini, deve essere particolarmente attenta nell’ipotesi di lavoro in equipe e, più in generale, di cooperazione multidisciplinare nell’attività medico-chirurgica, “cioè in tutti i casi in cui alla cura del paziente concorrono, con interventi non necessariamente omologabili, sanitari diversi, magari ciascuno con uno specifico compito.

La delicatezza del tema discende dalla necessità di contemperare il principio di affidamento (in forza del quale il titolare di una posizione di garanzia, come tale tenuto giuridicamente ad impedire la verificazione di un evento dannoso, può andare esente da responsabilità quando questo possa ricondursi alla condotta esclusiva di altri, contitolare di una posizione di garanzia, sulla correttezza del cui operato il primo abbia fatto legittimo affidamento) con l’obbligo di garanzia verso il paziente in forza del quale tutti i sanitari che partecipano contestualmente o successivamente all’intervento terapeutico”.

La Suprema Corte rammenta che in tali casi l’accertamento del nesso causale rispetto all’evento verificatosi “deve essere compiuto con riguardo alla condotta ed al ruolo di ciascuno, non potendosi configurare una responsabilità di gruppo in base ad un ragionamento aprioristico”.

Inoltre, in tema di colpa professionale, per l’affermazione della responsabilità penale del singolo sanitario operante in équipe chirurgica, è necessario “non solo accertare la valenza concausale del suo concreto comportamento attivo o omissivo al verificarsi dell’evento ma anche la rimproverabilità di tale comportamento sul piano soggettivo secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza e dalla dottrina in tema di colpa”.

 

Il principio di vigilanza sull’attività altrui non opera quando i compiti sono distinti

I giudici del Palazzaccio, infine, chiariscono che in tema di colpa professionale, in caso di intervento chirurgico in “equipe”, il principio per cui ogni sanitario è tenuto a vigilare sulla correttezza dell’attività altrui, se del caso ponendo rimedio ad errori che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio, “non opera in relazione alle fasi dell’intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono distinti, dovendo trovare applicazione il diverso principio dell’affidamento per cui può rispondere dell’errore o dell’omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell’intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l’onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui.

Nell’ambito dell’attività medica, proprio il principio di affidamento consente infatti di confinare l’obbligo di diligenza del singolo sanitario entro limiti compatibili con l’esigenza del carattere personale della responsabilità penale, sancito dall’art. 27 della Costituzione.

In definitiva, il riconoscimento della responsabilità per l’eventuale errore altrui (nel caso di specie quello adombrato a carico del primario nel quarto intervento chirurgico) non è, conseguentemente, illimitato e “richiede la verifica del ruolo effettivo svolto dal ricorrente, non essendo consentito ritenere aprioristicamente una responsabilità di gruppo e ciò tanto più alla luce delle argomentazioni difensive del ricorrente che ha evidenziato che il posizionamento dei divaricatori non era comunque percepibile nell’immediatezza”.

La Cassazione ha pertanto cassato la sentenza impugnata, che aveva peraltro omesso anche di  appurare se e in quale misura la condotta dell’aiuto “si sia discostata dalle linee guida di settore o dalle buone pratiche clinico-assistenziali”, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano per un nuovo giudizio.

 

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Malasanità

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