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I sindacati di categoria hanno parlato di verdetto storico. Dopo una battaglia durata più di dieci anni il Tribunale di Lecce, prima sezione civile, con la sentenza 2407/2023 pubblicata il 5 settembre 2023, ha condannato il Ministero della Giustizia a risarcire i familiari di un assistente capo di polizia penitenziaria presso la casa circondariale lecceseN.C. Borgo San Nicola” deceduto nel 2011 per carcinoma polmonare, la neoplasia per eccellenza causata dal fumo, ma né lui né i suoi familiari avevano mai fumato.

Agente penitenziario non fumatore esposto al fumo passivo muore giovane di cancro ai polmoni

L’agente tuttavia era stato esposto per lunghi decenni alle cattive abitudini altrui, al fumo passivo che si addensava (anche in barba ai divieti intervenuti nel tempo) nelle sezioni detentive. Per almeno sei ore al giorno era costretto a subire il fumo dei detenuti – il corridoio davanti alle celle era una “camera a gas”, come ha confermato durante il dibattimento un testimone -, ma anche quello di colleghi che fumavano tranquillamente in ufficio, mentre l’amministrazione penitenziaria non è riuscita a garantire adeguate misure di prevenzione, e a far rispettare il divieto di fumare, complice anche l’infelice dislocazione delle celle e l’esposizione dei locali: aveva imposto sanzioni ai trasgressori solo dopo il decesso del dipendente. Che era mancato a soli a quarantaquattro anni, lasciando tre figli, a fronte di un’aspettativa di vita di ottantadue.

I familiari citano il Ministero della Giustizia per i danni e il Tribunale ha accolto la domanda

I suoi congiunti, quindi, hanno promosso una causa civile contro l’amministrazione penitenziaria per vedere riconosciuto il risarcimento del danno subito per la perdita del proprio caro. E ora il Tribunale ha accolto la domanda, con motivazioni inequivocabili.

Nel dispositivo della sentenza il giudice monocratico, Silvia Rosato, premette che “sin da epoca remota vi era consapevolezza sociale e medico-scientifica degli esiti lesivi del bene salute etiologicamente riconducibili all’esposizione a fumo da combustione di sigaretta, come comprovano i plurimi interventi normativi varati dal Legislatore con il fine di garantire tutela ai soggetti esposti a detta fonte morbigena”.

 

La nocività del fumo era cosa nota da decenni, ma il Ministero non ha adottato misure adeguate

Pertanto, prosegue la sentenza, “già in epoca antecedente al 2003 vi era la chiara consapevolezza circa la nocività del fumo derivante dalla combustione di sigarette, con la conseguente adozione e previsione di obblighi e divieti; di contro, per tutto il periodo durante il quale l’agente lavorò negli ambienti carcerari (dal 16 aprile 1991 al luglio 2011) e, in ogni caso, per il periodo dal 2003 (anno di entrata in vigore della L. n. 3/2003) al 2011 (epoca del decesso di lui), il Ministero convenuto omise di predisporre adeguate misure di prevenzione, di richiedere l’osservanza dell’obbligo di legge di non fumare e di sanzionare i trasgressori (siccome comprovato dalle risultanze della prova orale e documentale sopra riportate), in tal modo favorendo fattivamente l’insorgenza, la manifestazione clinica ed il decorso della patologia tumorale che portò al decesso della vittima, atteso che un significativo abbattimento dell’esposizione al fattore morbigeno avrebbe potuto comunque agire positivamente sui tempi di latenza o di insorgenza della malattia mortale, ovvero sul decorso clinico di quest’ultima, rallentando e/o posticipando l’exitus”. 

Accertato anche il nesso causale tra esposizione lavorativa al fumo e insorgenza della malattia

Il giudice a supporto della sua decisione ha addotto anche le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio incaricato ad hoc. “Dalla relazione del Ctu. dott. Sandro Petrachi nominato in corso di giudizio (le cui indagini appaiono puntuali, esaustive e corrette e le cui conclusioni questo Giudicante ritiene di condividere, in quanto rigorosamente argomentate dal punto di vista tecnico-scientifico, logicamente motivate e fondate sulla letteratura medico-legale internazionale) si evince la sussistenza, con criterio probabilistico, del nesso causale tra l’esposizione lavorativa dell’agente al fumo passivo sul luogo di lavoro e l’insorgere della neoplasia polmonare ed il successivo decesso, tenuto conto che il de cuius non era fumatore, dell’assenza di co-morbilità con efficacia etio-patogenetica tale da assurgere da sole ad elemento causale sufficiente e che, dunque, l’esposizione al fumo passivo, nelle condizioni poste, aveva inciso in maniera determinante; si evince altresì che la patologia neoplastica aveva ridotto l’aspettativa di vita dell’uomo, deceduto a 44 anni, che sarebbe stata di circa 82 anni. Laddove invece, prosegue il giudice, “a fronte di tanto, il Ministero convenuto (sul quale, in qualità di datore di lavoro, grava il relativo onere probatorio) non ha dimostrato in giudizio di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato in concreto tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo”.

 

Datore di lavoro, ossia il Ministero, pienamente responsabile

In conclusione, il magistrato stabilisce che “può dunque ritenersi raggiunta la prova in ordine alla sussistenza tanto dell’elemento soggettivo (la colpa del Ministero) quanto dell’elemento oggettivo (evento e nesso causale tra condotta e malattia e successivo decesso dell’agente), necessari al fine di ritenere la sussistenza della responsabilità dell’illecito in capo al convenuto”. E quindi è stata inequivocabilmente riconosciuta la responsabilità del Ministero della Giustizia, in qualità di datore di lavoro, per non aver tutelato adeguatamente i poliziotti penitenziari dai danni derivanti dal fumo passivo. Il codice civile infatti, ribadisce il giudice, “impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore”. Pertanto, spetta al datore risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali ai familiari.

Con conseguente condanna al risarcimento dei danni ai familiari

Il Ministero della Giustizia è stato pertanto condannato a liquidare alla coniuge superstite dell’agente penitenziario, anche lei non fumatrice, un risarcimento di oltre 647 mila euro per il danno patrimoniale e di circa 294 mila per quello parentale. Il primo importo è stato determinato detraendo quanto la vedova aveva ricevuto a titolo di prestazione d’inabilità di riversibilità, mentre il secondo è stato calcolato in base alle tabelle del tribunale di Roma e non è stato soggetto ad alcuna decurtazione per le voci indennitarie e per gli emolumenti previdenziali riconosciuti dalla legge e riscossi dalla donna per il fatto-reato, perché il danno è stato patito iure proprio dalla vedova: dunque, niente compensatio lucri cum damno sul danno parentale.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Responsabilità della Pubblica Amministrazione

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