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Può sembrare una mera questione tecnica e formale, ma in realtà è così “sostanziale” da costituire motivo per cassare una sentenza.  In molte procure oggi è invalsa, anche per questioni meramente organizzative, l’abitudine di rubricare fascicoli penali anche in casi di soggetti deceduti, soprattutto per sospetta responsabilità sanitaria, al modello 44, cioè contro ignoti, o addirittura al modello 45, ossia la mera “notizia di reato”.

In queste circostanze, pertanto, in assenza di indagati, in particolare per le indagini autoptiche eseguite, ovviamente, come “accertamento tecnico non ripetibile”, non viene inviata ad alcuno la notifica di presenziare attraverso propri consulenti.

Ebbene, la Cassazione censura con forza questa prassi, in quanto lesiva del diritto di difesa, soprattutto nei casi nei quali a carico di determinati soggetti, pur non risultando iscritti nel registro degli indagati, si configura un certo quadro probatorio, non fosse altro perché citati nella denuncia-querela della controparte.

 

Due “lettighieri” condannati per aver fatto cadere dalla barella un’anziana poi deceduta

Il caso di cui si è occupata la Suprema Corte, quarta sezione penale, con la sentenza 16819/21 depositata il 4 maggio 2021, è quello di due lettighieri, ossia infermieri addetti al trasporto dei malati in ambulanza, i quali, con sentenza del 14 novembre 2017 della Corte d’appello di Roma, peraltro a conferma di quella di primo grado, erano stati ritenuti penalmente responsabili del reato di omicidio colposo per avere causato la morte di una paziente, intervenuta per “insufficienza cardio-circolatoria, in soggetto in stato di coma profondo conseguente a trauma cranio-encefalico, con iniziale ematoma subdurale”, conseguente a caduta da una barella spinale.

L’incidente era occorso cinque giorni prima del decesso, il 21 ottobre 2011: l’anziana, che aveva 77 anni, era caduta all’interno della chiesa sotto casa, dove si era recata per assistere ad una funzione, perdendo l’equilibrio sul gradino di accesso all’altare. Chiamati i soccorsi e arrivata l’ambulanza, la malcapitata era stata caricata su una tavola spinale per trasferirla verso il mezzo. Non essendo, tuttavia, stata opportunamente assicurata con le cinghie di ritenzione dai due sanitari che la stavano caricando in ambulanza, era precipitata al suolo, sul lato destro, non riuscendo a proteggersi dalla caduta e battendo violentemente il capo a terra.

Un trauma cranico risultato poi fatale, secondo quanto accertato dai giudici di merito, con conseguente condanna ai due portantiniper colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia”.

 

Secondo la consulenza tecnica medico legale sussiste il nesso di causa tra caduta e decesso

Più precisamente, la sentenza di primo grado, assolvendo l’autista dell’ambulanza, e coimputato, in quanto ritenuto non coinvolto nel trasporto sulla barella della paziente, aveva individuato, sulla base della perizia autoptica affidata a un neurochirurgo e a un medico leale, la causa della morte nella “emorragia intraparenchimale sinistra con emoventricolo massivo secondario, prevalente a sinistra di origine traumatica”, lesione ricondotta alla caduta dalla barella, non quale effetto diretto dell’urto del capo a terra, ma del movimento violento del capo, dovuto al contraccolpo, compatibile con il momento dell’insorgenza, successivo a quello del sinistro (quaranta ore dal trauma), trattandosi di emorragia intracranica tardiva, non infrequente nella pratica clinica (dal 2,3% all’8,4% delle casistiche).

La decisione, inoltre, sulla base del parere dei consulenti tecnici, aveva reputato corretta la somministrazione del farmaco antitrombotico Clexane, in paziente anziana (77 anni), costretta all’immobilità per la frattura del femore. 

Ciò posto, aveva ritenuto la sussistenza del nesso causale fra la condotta degli imputati, consistita nel non assicurare la paziente alla barella, e l’evento morte, facendo riferimento nell’assenza, sottolineata dai periti, di una legge scientifica di copertura inerente ai casi uguali a quello trattato ai criteri enunciati dalla sentenza delle Sezioni Unite Franzese, così fondando il giudizio contro-fattuale su massime di esperienza e sul senso comune, ritenendone l’attendibilità secondo criteri di elevata credibilità razionale, a fronte di verifica ancorché empirica, ma scientificamente condotta.

 

Respinta in secondo grado l’eccezione sull’omesso avviso ai due sanitari dell’esame autoptico

La sentenza di secondo grado, come detto, aveva confermato la ricostruzione intervenuta in prima cura, preliminarmente rigettando due eccezioni di natura processuale avanzate dai legali degli imputati. La prima riguardante la nullità dell’ordinanza resa in data primo aprile 2014, da parte del giudice di primo grado, con la quale si respingeva l’eccezione di nullità della consulenza del pubblico ministero avente ad oggetto l’esame autoptico, per omesso avviso alle persone individuabili come potenziali indiziate di reità, benché non ancora iscritte nel registro degli indagati.

La seconda relativa alla nullità dell’ordinanza di primo grado, resa in data 19 ottobre 2015, relativa al mancato esame del consulente di parte degli imputati, in quanto non indicato nella lista testimoniale, ritenendo che la mancata redazione in forma scritta delle osservazioni da parte del medico legale nominato dagli imputati – che non partecipò alle operazioni peritali – avrebbe implicato che il consulente di parte prendesse la parola dopo il perito del giudice, introducendo argomenti nuovi e ignoti ai periti ed ai consulenti delle parti civili: ciò avrebbe comportato una violazione del contraddittorio, in assenza di un diritto di replica degli altri tecnici.

Nel merito, poi, la Corte d’Appello aveva sottolineato che l’assenza di una legge scientifica di copertura sul tempo di latenza di un attacco cerebrale seguito a trauma cranico, non impediva di ricavare il nesso causale da osservazioni di natura clinico-statistica, di matrice frequentista, ciò consentendo di ricondurre il verificarsi dell’evento ad uno schema improntato all’alta probabilità logica e credibilità razionale. Inoltre, aveva ribadito la non riconducibilità dell’emorragia cerebrale all’utilizzo del farmaco antitrombotico, sulla base del parere degli esperti, che avevano indicato la correttezza della posologia somministrata.

I due imputati hanno quindi proposto ricorso per cassazione adducendo due motivi di doglianza. Con il primo, che è quello che qui preme, hanno nuovamente censurato la violazione della legge processuale penale, con riferimento all’art. 360, comma 1 cod. proc. pen. ed il vizio di motivazione. La sentenza impugnata avrebbe disapplicato il disposto dell’art. 360, comma 1 cod. proc. pen., in relazione all’obbligo di dare avviso dell’effettuazione di accertamento tecnico irripetibile, previsto a pena di nullità, da notificarsi, secondo la lettura costituzionalmente orientata della giurisprudenza di legittimità, anche alla persona che, pur non iscritta nel registro degli indagati, risulti al momento dell’espletamento raggiunto da indizi di reità quale autore del reato oggetto di indagini.

 

Vanno avvisati degli accertamenti anche quanti sono raggiunti da “indizi di reità”, come loro

Essi, infatti, hanno sottolineato che al momento del conferimento dell’incarico per l’esame autoptico della salma emergevano già dagli atti processuali inequivoci indizi a loro carico, univocamente indicati come responsabili dell’accaduto nella denuncia sporta dai familiari della persona offesa, sulla base della quale il pubblico ministero non si limitò a disporre la generica acquisizione della documentazione del Pronto soccorso, ma richiese anche l’indicazione dei nominativi del personale sanitario in servizio che si occupò del trasporto della paziente in ospedale.

Dunque, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici del merito, sia dalla circostanziata denuncia, che dalla delega di indagini, emergeva un quadro indiziario che doveva indurre il pubblico ministero a dare avviso ai ricorrenti, ai sensi dell’art, 360, comma 1 cod. proc. pen., non potendo condividersi, a fronte di detto quadro, l’assunto della Corte territoriale secondo cui la notizia avrebbe potuto essere annotata al Modello 45 relativo agli atti non costituenti notizia di reato, sulla base della discrezionalità del potere di iscrizione.

I ricorrenti hanno ritenuto il ragionamento del giudice di seconde cure elusivo e fondato sulla “degradazione” degli indizi di reità a meri sospetti, “confluenti nella prospettazione della discrezionalità del pubblico ministero in ordine all’iscrizione dell’indiziato sul registro degli indagati che sconfina nell’arbitrarietà”.

Al contrario, hanno insistito, il fatto di essere in presenza dell’evidente identificabilità dei ricorrenti quali autori del reato, sulla base di in quadro indiziario preciso, anche laddove non grave, avrebbe dovuto imporre l’adempimento dell’obbligo di notificare l’avviso di accertamento urgente, essendo identificazione e notifica compatibili con le ragioni di urgenza proprie degli accertamenti tecnici.

Con il secondo motivo, poi, i due infermieri hanno contestato il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del nesso causale tra la condotta e l’evento: a loro dire, il primo giudice aveva offerto soltanto una possibile spiegazione causale dell’evento, dal punto di vista concettuale, senza dimostrare il fenomeno causale, secondo il criterio di alta credibilità razionale enunciato dalle Sezioni Unite.

Senza entrate qui nelle questioni tecniche, incentrate sull’emorragia cerebrale e sulla sua insorgenza tardiva, è chiaro che in questo caso le contestate conclusioni della perizia medico legale sono risultate decisive nella sentenza di condanna e che la mancata partecipazione alle operazioni peritali da parte di periti di parte rappresenta una lacuna ancora più pesante.

 

La Cassazione accoglie il ricorso: vanno assicurati i diritti di difesa anche ai non indagati

E infatti la Cassazione ritiene fondato il primo motivo di doglianza dei due ricorrenti. “L’avviso relativo all’espletamento di un accertamento tecnico non ripetibile, con la conseguente assicurazione dei diritti di assistenza difensiva, deve essere dato anche alla persona che, pur non iscritta nel registro degli indagati, risulti nello stesso momento raggiunta da indizi di reità quale autore del reato oggetto delle indagini” premette la Suprema corte.

Nel caso di specie, sottolineano i giudici del Palazzaccio, la Corte territoriale, nel respingere il motivo di appello con il quale si faceva valere la nullità dell’accertamento irripetibile per non avere il pubblico ministero provveduto a dare avviso agli imputati, si è soffermata sull’assenza dell’obbligo di informare i ricorrenti, al momento della disposizione dell’autopsia da parte del pubblico ministero, non essendo essi ancora iscritti nel registro degli indagati, né essendo risolto il dubbio in merito alla sussistenza di un fatto valutabile come ipotesi di reato. Ma questa motivazione – prosegue la Cassazione – “elude i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, che ha esteso la garanzia prevista dall’art. 360 comma 1 cod. proc. pen. anche a colui che, pur non essendo iscritto al registro degli indagati, appaia come possibile autore del reato, in quanto raggiunto da indizi di reità”.

La Suprema Corte non condivide la giustificazione addotta dai giudici territoriali, che si sono semplicemente limitati ad affermare che l’indicazione nominativa, contenuta nella denuncia presentata il 26 ottobre 2011, da parte dei familiari della persona offesa, non obbligava il pubblico ministero all’iscrizione al registro “noti”, non essendo ciò previsto neppure quando la comunicazione della notizia di reato interviene da parte di un pubblico ufficiale. “E ciò perché spetta a quest’ultimo, titolare esclusivo del potere di iscrizione, determinarsi in tal senso, avendo il ritardo nel trasferimento dal registro “ignoti” a quello “noti”, o l’omissione, al più, rilievo disciplinare, dovendosi, invece, escludere ogni ricaduta sulla validità degli atti di indagine, perché altrimenti si aprirebbe la strada ad abusi connessi a denunce infondate”.

 

In primis a coloro che vengono indicati nominativamente in denunce circostanziate

Una simile “restrittiva interpretazione” del disposto dell’art. 360, comma 1 cod. proc. pen., secondo i giudici del Palazzaccio, “soffre della mancata considerazione delle garanzie riconosciute dall’ordinamento in favore non solo di coloro che sono indagati, ma, secondo i principi enucleati dalla Suprema Corte, anche di coloro che, pur non essendolo formalmente, in quanto non ancora iscritti all’apposito registro, siano, nondimeno, individuabili come presumibili autori del reato, potendosi riconoscere la sussistenza di un quadro indiziario, ancorché non grave, a loro carico”.

E fra questi vanno indubbiamente compresi “i soggetti indicati nominativamente in denunce circostanziate che danno l’avvio all’indagine, quando, al di là della successiva valutazione sulla fondatezza, risulti dalle medesime la necessità della persona indicata come autore di difendersi dall’accusa. In questo, infatti, si estrinseca la garanzia predisposta dall’ordinamento, che intende consentire a chi è suscettibile di subire l’azione penale per un determinato fatto, di difendersi non appena possibile, ed in relazione a tutti gli atti di indagine che possano coinvolgerlo e per i quali sia espressamente prevista la facoltà di partecipazione della difesa”.

Ne consegue che ogniqualvolta vi siano elementi per la sua identificazione – qual è una denuncia nominativa che indichi le ragioni dell’attribuzione del fatto ad un determinato soggetto, nonché le circostanze che determinano la sua indicazione come autore del reato – e da ciò scaturisca un atto di indagine, disposto dal pubblico ministero, consistente in un accertamento irripetibile, vige ne “l’obbligo di dare l’avviso previsto dall’art. 360, comma 1 cod. proc. pen“.

Nel caso di specie, vanno a concludere gli Ermellini, dalla consultazione degli atti processuali è emerso che la denuncia, con la quale si descriveva il fatto e si indicavano espressamente come autori del reato coloro che operavano sull’ambulanza, era giunta per fax al pubblico ministero il giorno 26 ottobre 2011, alle ore 16.37, mentre l’incarico al consulente tecnico, da parte del pubblico ministero, era stato conferito il giorno successivo. “Sicché emergevano in quel momento dagli atti processuali inequivoci indizi a carico degli imputati, che obbligavano il pubblico ministero ad adempiere all’onere di dare avviso dell’accertamento irripetibile agli interessati”.

La condanna è stata pertanto annullata agli effetti penali, e senza rinvio, essendosi il reato estinto per sopraggiunta prescrizione, ma anche agli affetti civili (con le relative statuizioni risarcitorie nei confronti delle parti civili), “posto che il fatto è stato accertato attraverso una prova inutilizzabile nel procedimento penale, con conseguente rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello per un nuovo giudizio”.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Malasanità

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