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Il paziente che abbia contratto la cirrosi epatica correlata all’epatite C in seguito a una emo-trasfusione va risarcito dal Ministero alla Salute anche se il virus HCV (l’epatite C appunto) è conosciuto solo dal 1989, dopo la trasfusione “incriminata”: l’epatite B, infatti, è nota dalla fine degli anni ’60 e già da allora sussiste la responsabilità del Ministero anche per il contagio degli altri due virus, poiché essi non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazione patogene dello stesso evento lesivo.

E già da tale epoca sussistevano obblighi normativi di prevenzione con riguardo alla trasfusione e ai rischi connessi. E’ una ordinanza importante a tutela delle migliaia di persone rimaste vittima del grave fenomeno del sangue infetto quella, la n. 38583/21, depositata dalla Corte di Cassazione il, 6 dicembre 2021.

 

Cirrosi epatica da epatite C causata da emo-trasfusione: il risarcimento del paziente

A ricorrere in Cassazione il Ministero della Salute contro la sentenza del 12 giugno 2020 con cui la Corte d’appello di Lecce, in parziale accoglimento dell’appello proposto da un paziente, aveva condannato appunto il ministero al pagamento della somma di 341.558 euro a titolo di danno biologico e invalidità temporanea, oltre le spese di giudizio, in conseguenza della infezione da virus HCV (epatite C) , contratta dall’uomo a causa di emotrasfusioni somministrate nei 1971: la patologia gli era stata diagnosticata nel 2003 e gli aveva causato una cirrosi epatica HCV correlata, diagnosticata nel 2008 .

La Corte territoriale, nel riformare la sentenza di primo grado, aveva inteso uniformarsi alla sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 576 e 581 del 2008 la quale aveva ritenuto che, a partire dalla data di conoscenza dell’epatite B, sussiste la responsabilità del Ministero anche per il contagio degli altri due virus, poiché non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazione patogene dello stesso evento lesivo, posto che già a tale epoca sussistevano obblighi normativi di prevenzione con riguardo alla trasfusione e ai rischi connessi.

Si obietta che il virus dell’epatite C è stato conosciuto solo dopo la trasfusione incriminata

Il Ministero nel ricorso ha obiettato che il virus dell’epatite C era conosciuto solo a partire dal 1989 e che il test diagnostico non era ancora esistente al tempo dell’evento, non essendovi cause dell’infezione riferibili ad altro virus dell’epatite. Inoltre, secondo la sua tesi difensiva non si sarebbe potuto desumere un generale obbligo di vigilanza da parte ministeriale, perché rimesso al personale medico e alle strutture sanitarie. Infine, il ricorrente evidenziava come nel 1991 il paziente avesse eseguito esami di laboratorio che attestavano che le transaminasi erano nella norma, mentre la patologia era stata diagnosticata nel 2003.

Secondo la Suprema Corte, tuttavia, il ricorso è inammissibile. I primi due motivi, spiegano gli Ermellini, risultano manifestamente infondati in relazione a precedenti conformi che hanno considerato che, “in caso di patologie conseguenti ad infezione da virus HBV, HIV e HCV, contratte a seguito di emotrasfusioni o di somministrazione di emoderivati, sussiste la responsabilità del Ministero della salute anche per le trasfusioni eseguite in epoca anteriore alla conoscenza scientifica di tali virus e all’apprestamento dei relativi test identificativi (risalenti, rispettivamente, agli anni 1978, 1985, 1988)”.

Il rischio di trasmissione di epatite virale da emotrasfusione è noto già dagli anni ‘60

Già dalla fine degli anni ’60, infatti, chiariscono i giudici del Palazzaccio, era noto il rischio di trasmissione di epatite viraleed era possibile la rilevazione (indiretta) dei virus, che della stessa costituiscono evoluzione o mutazione, mediante gli indicatori della funzionalità epatica, gravando pertanto sul Ministero della salute, in adempimento degli obblighi specifici di vigilanza e controllo posti da una pluralità di fonti normative speciali risalenti già all’anno 1958, l’obbligo di controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni e gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazione della transaminasi.

L’ipotesi, ovviamente, si riferisce ad ogni infezione isolatamente considerata, e non solo a quelle concatenate, contrariamente a quanto assunto dal Ministero ricorrente”. Il riposo è stato dunque rigettato e il risarcimento confermato.

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Malasanità

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