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Nessun risarcimento spetta ai genitori se il medico non ha rilevato dall’ecografia l’assenza di un arto del nascituro, trattandosi di un’anomalia fetale non idonea a consentire l’interruzione di gravidanza. E’ quanto disposto dalla Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, con la recente sentenza dell’11 aprile 2017, n. 9251.

Nella vicenda in questione, una coppia di coniugi aveva proposto ricorso in Cassazione avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello di Milano aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni, lamentati dai ricorrenti per la mancata rilevazione, da parte del medico, durante l’ecografia, della malformazione del nascituro, venuto alla luce “completamente privo della mano sinistra”.

Il ricorso, articolato sulla scorta di quattro motivi, è stato respinto. Esaminando congiuntamente le argomentazioni proposte, la Suprema Corte ha rilevato come la Corte di merito avesse applicato correttamente i principi relativi al tema della responsabilità medica da nascita indesiderata, seguendo l’indirizzo dei giudici delle Sezioni Unite, secondo i quali, qualora un genitore agisca per ottenere il risarcimento del danno, deve provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza, in presenza delle condizioni di legge, se fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale. Tale onere può essere assolto presuntivamente in base ad elementi di prova, mentre grava sul medico la prova contraria.

La Cassazione ha evidenziato come il giudice di prime cure avesse accertato, alla luce del dato normativo e delle risultanze processuali, che nella vicenda in oggetto non vi fosse una situazione tale da poter legittimare, secondo i termini di legge, un’eventuale scelta di interruzione della gravidanza da parte della madre, non ricorrendo un grave pericolo per la salute psichica della stessa.

Dunque, attesa l’insussistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, tali da comportare un grave pericolo per la salute della donna, i giudici di merito hanno negato che “il primo giudice non abbia considerato che i coniugi, se tempestivamente e correttamente informati, sarebbero arrivati al parto preparati, a differenza di quanto è avvenuto”, escludendo poi “che la sofferenza psichica dagli stessi manifestata potesse essere evitata o lenita ove si fossero potuti trovare nella condizione – che in concreto è invece mancata – di conoscere tempestivamente la presenza della malformazione”.

La Suprema Corte, ha precisato che il nostro ordinamento non prevede il cosiddetto “aborto eugenetico”, prescindente dal “serio” o dal “grave pericolo” per la “vita” o la “salute fisica o psichica” della donna. A tal riguardo, ha poi osservato che, il nostro Stato tutela la vita umana fin dal suo inizio (L. n. 194 del 1978, art. 1) e l’interruzione della gravidanza “non è mezzo per il controllo delle nascite” (Cass., Sez. Un., 22/12/2015). Dunque, mentre entro i primi novanta giorni l’interruzione della gravidanza può essere ammessa se vi sono “previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”, o se la prosecuzione della gravidanza o il parto comportino un “serio pericolo” per la “salute fisica o psichica” della gestante (L. n. 194 del 1978, art. 4), dopo i primi novanta giorni, essa può essere consentita eccezionalmente solo in alcuni casi, ovvero quando: a) la gravidanza o il parto comportino un “grave pericolo” per la “vita della donna” ovvero b) siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un “grave pericolo” per la “salute fisica o psichica della donna”.

In effetti, l’interruzione volontaria di gravidanza è diretta solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, serio (entro i primi 90 giorni di gravidanza) o grave (dopo i i primi 90 giorni di gravidanza); le malformazioni o anomalie del feto rilevano solo qualora possano causare un danno alla salute della stessa gestante, e non sono considerate con riferimento al nascituro.

Dunque, l’interruzione della gravidanza è ammissibile solo qualora sussista un pericolo per la salute o per la vita della gestante, ma l’esistenza di malformazioni del feto che non incidono sulla vita o sulla salute della donna, non consentono l’accesso all’aborto, in quanto non idonei a determinare “un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” .

In conclusione,la Suprema Corte, considerando che i giudici del doppio grado di merito abbiano correttamente ritenuto che la mancanza di una mano non rientri tra i presupposti previsti normativamente per configurare il requisito del “grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” legittimante l’eccezionale possibilità di ricorrere, dopo i primi 90 giorni di gravidanza, all’interruzione di gravidanza, ha rigettato il ricorso.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Malasanità

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