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Stilare un referto in termini scientifici sul suo risultato non basta per adempiere all’obbligo di informazione nei confronti del paziente, che non si espleta attraverso un’esposizione tecnica e atemporale, bensì con una traduzione della diagnosi al livello di conoscenza scientifica del paziente e sotto l’aspetto del significato concreto.

E’ una sentenza di capitale rilevanza nell’ambito della responsabilità medica quella recentemente pronunciata dalla Corte di Cassazione, terza sezione civile, e depositata in cancelleria lo scorso 18 marzo: la numero 6688/2018. La Suprema Corte si è espressa nell’ambito di un complesso procedimento legato al decesso di una donna in seguito ad un carcinoma mammario. I familiari avevano citato in causa l’Azienda Sanitaria locale alla luce della “inidonea” condotta di due medici, un ecografo e un radiologo, presso i quali la paziente si era sottoposta pochi mesi prima a degli esami (in particolare, un esame eco-mammario e una mammografia), ma che non l’avrebbero adeguatamente messa in guardia dalle avvisaglie della malattia che pur erano state rilevate.

L’Asl in questione ha proposto ricorso in Cassazione contro la sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello di Campobasso, e a loro volta i familiari della vittima hanno proposto ricorso incidentale che la Suprema Corte ha accolto, rinviando il tutto alla Corte d’Appello.

Al di là dei vari aspetti affrontati dagli Ermellini, come quello relativo al danno da perdita di chance, ciò che qui preme è quanto afferma la sentenza sul diritto dei pazienti ad essere informati: la Cassazione, infatti, ha ritenuto incompleta, e quindi lesiva del diritto del paziente al pari di un’informazione assente, l’informazione che non illustra le caratteristiche di gravità o di rischio di gravità di quanto riscontrato da un esame diagnostico al quale si è sottoposto l’assistito e che non segnala la presenza di un’eventuale urgenza in modo specifico e ben percepibile dall’interlocutore.

Giova qui riportare per esteso i relativi e significativi passaggi.

L’obbligo di una informazione del paziente da parte del medico che sia effettuata in modo completo e con modalità congrue caratterizza la professione sanitaria, più che logicamente dato che il medico ha come oggetto della sua attività un corpo altrui. La giurisprudenza di questa Suprema Corte ha sviluppato il concetto della necessaria informazione non solo riguardo alla decisione di sottomettersi ai trattamenti proposti dal medico – il cosiddetto e ben noto “consenso informato” – ma altresì laddove la conoscenza concerne risultati diagnostici così da costituire il presupposto dell’esercizio del diritto di autodeterminazione in ordine a scelte successive della persona-paziente (sotto quest’ultimo profilo cfr. tra gli arresti più recenti Cass. sez. 3, 28 febbraio 2017 n. 5004 e Cass. sez. 3, 27 novembre 2015 n. 24220). L’inadempimento dell’obbligo informativo può quindi ledere il diritto all’integrità psicofisica (cfr. p. es. Cass. sez. 3, 13 febbraio 2015 n. 2854) ma può parimenti ledere il diritto all’autodeterminazione. Autodeterminazione che, oramai, struttura precipuamente il rapporto tra paziente e medico, e che deve essere tutelata in modo effettivo e concreto, mediante informazioni trasmesse con modalità adeguate alle caratteristiche della persona che le riceve (cfr. in particolare Cass. sez. 3, 4 febbraio 2016 n. 2177, per cui incide sulle modalità dell’informazione la qualità del paziente, che obbliga ad adattarla al suo livello culturale mediante un linguaggio a lui comprensibile, secondo il suo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone; conforme Cass. sez. 3, 20 agosto 2013 n. 19220; e Cass. sez. 3, 28 febbraio 2017 n. 5004, cit., precisa in sostanza che l’informazione deve investire tutti gli elementi idonei a consentire una scelta pienamente consapevole, incluse le sue conseguenze, mentre Cass. sez. 3, 27 novembre 2015 n. 24220, cit., evidenzia come l’obbligo informativo concerna pure la “valutazione della necessità di approfondimenti”: il che, ovviamente, non può non includere anche la tempistica di questi ultimi).

Nel caso, quindi, il cui un medico effettua un esame diagnostico entrando in diretto contatto con il paziente – come nell’ipotesi, per esempio, di un’ecografia o di una radiografia -, stilare un referto in termini scientifici sul suo risultato non è adempimento dell’obbligo di informazione, bensì adempimento, nella parte conclusiva, dell’obbligo di effettuazione dell’esame. Non potendosi certo ritenere che, per quanto già rilevato, l’obbligo di informazione debba investire esclusivamente la sottoposizione a trattamenti terapeutici, in quanto include anche i risultati diagnostici, comprese per logica le correlate conseguenze di essi, l’informazione in termini non professionalmente criptici bensì adeguati alle conoscenze e allo stato soggettivo del paziente del significato del referto nonché delle conseguenze che se ne dovrebbero trarre – individuate, logicamente, pure sul piano temporale – in termini ulteriormente diagnostici e/o terapeutici costituisce il presupposto per l’esercizio del diritto di autodeterminazione del soggetto esaminato, id est il presupposto delle sue scelte successive. Un’informazione incompleta, al pari di una informazione assente, lede pertanto tale diritto del paziente; ed incompleta non può non essere un’informazione che non spieghi le caratteristiche di gravità o di rischio di gravità di quanto riscontrato, e che non segnali la presenza di un’eventuale urgenza in modo specifico e ben percepibile, in considerazione anche delle sue conoscenze scientifiche, dal paziente.

In conclusione, la corte territoriale ha “atrofizzato” gli obblighi professionali del medico nell’effettuazione della prestazione – nel senso di esatta diagnosi e di esatta individuazione di quanto conseguentemente sarebbe occorso -, non prendendo in considerazione l’obbligo informativo del suo risultato alla paziente, obbligo che non si adempie emediante una illustrazione tecnica e atemporale, ma deve consistere in una traduzione della diagnosi al livello di conoscenza scientifica del paziente sia sotto l’aspetto del significato intrinseco, sia sotto il conseguente aspetto dei limiti temporali entro cui effettuare ulteriori iniziative diagnostiche o iniziative terapeutiche, ovvero ulteriori scelte da parte del paziente. L’obbligo informativo del medico al paziente, invero, non insorge soltanto in procinto di un trattamento, ovvero quando il medico propone al paziente come affrontare la sua patologia, ma sussiste pienamente fin dagli esiti degli accertamenti diagnostici.

In tal modo, in ultima analisi, il giudice d’appello non ha correttamente né compiutamente deciso sulla domanda relativa all’accertamento e agli effetti della condotta inadempiente attribuita al C nei confronti della paziente sul piano informativo. Intendendo nel suo silenzio, visto il contesto motivazionale, un implicito rigetto, deve riconoscersi che la corte territoriale è incorsa in errore di diritto rapportabile agii articoli 1176, secondo comma, c.c. e 1218 c.c. – invocati infatti dai ricorrenti incidentali – perché ha così escluso che l’adempimento degli obblighi di un sanitario che svolge attività diagnostiche in diretto contatto con il paziente non comprenda una completa informazione a quest’ultimo, in termini non tecnici ma ben comprensibili ad un soggetto non esperto del settore, del significato della diagnosi formalmente versata in un referto e delle sue conseguenze, pure in termini temporali, analogamente a quanto deve accadere nel caso dell’informazione diretta ad ottenere dai paziente il consenso ad un intervento di cura”.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Malasanità

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