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Ventuno comuni veneti coinvolti di tre province, Vicenza, Verona e Padova, per un’estensione di circa 150mila chilometri quadrati, 120mila persone interessate, 85mila residenti nella “zona rossa” sottoposti allo screening, che sui ragazzi ha evidenziato valori nel sangue di 36 volte superiori a quelli normali, 80 i milioni di euro promessi dal Governo per rifare gli acquedotti.

Sono i numeri impressionanti di uno dei più gravi inquinamenti che si siano mai registrati in Veneto, quello da Pfas, per il quale è stata istituita anche una commissione consiliare regionale d’inchiesta, che proprio nei giorni scorsi, a fine dicembre 2017, ha completato i suoi lavori dopo quindici sedute, per una settantina di ore complessive, una sessantina di gruppi di persone audite tra tecnici regionali, gestori delle acque, sindaci, referenti dei Consorzi di bonifica e dell’azienda Miteni, la principale responsabile del disastro, nonché i comitati (in foto, una delle tante manifestazioni di protesta).

Entro un mese la commissione d’inchiesta sulle sostanze perfluoroalchiliche depositerà la sua relazione finale, ma il suo presidente, Manuel Brusco, consigliere regionale dei Cinque Stelle, in una recente e interessante intervista concessa ai quotidiani, e che si riporta di segiuto, ha già tracciato un primo bilancio sull’attività, sui risultati e sugli sviluppi della vicenda.

Il lavoro è finito o serviva altro tempo per completarlo? «Vista la complessità della questione servirebbe molto più tempo. Ma il nostro ruolo, a differenza di quello della Commissione parlamentare d’inchiesta, è di tipo amministrativo: dovevamo fare ordine. E abbiamo raccolto moltissimo materiale: ora ci servirà un mese per la relazione».

Con quali conclusioni? «Si tratta di un inquinamento che parte da un’azienda. Fino al 2013 il problema non esisteva, non si cercavano questi composti chimici. Nel 2013 uno studio rileva i Pfas e da lì in poi è stata fatta tanta confusione. Siamo nel 2018, sono passati cinque anni, e c’è ancora molta incertezza. Basti pensare che siamo qui a chiederci se la plasmaferesi sia giusta o meno o quale tipo di bonifica occorra effettuare».

Che incertezze ci sono sul tipo di bonifica? «L’azienda ha fatto ricorso al Capo dello Stato perché non vuole che sotto il suo stabilimento si scavi con una maglia più stretta, ovvero che si facciano ricerche più approfondite. Credo sia assurdo che dopo cinque anni siamo ancora qui a capire se serva un carotaggio più ampio o più piccolo. Non dico che in cinque anni il problema avrebbe dovuto essere risolto, ma perlomeno non dovremmo essere qui a farci simili domande. Oppure pensiamo al governo che impedisce alla Regione dì fare la plasmaferesi lasciando così le persone nel limbo».

Uno scontro, quello col governo sulla plasmafersi, che non ha aiutato. «Anzi, ha spaventato i cittadini. Bloccandola si è diffusa la preoccupazione».

Dietro i ritardi c’è una sottovalutazione del problema? «All’inizio chi sollevava la questione, come i medici, i comitati o alcuni politici, veniva addirittura accusato di procurato allarme. Successivamente la Regione ha fatto un passo avanti e ora si ha la consapevolezza che l’inquinamento da Pfas è un vero disastro per la salute, per l’ambiente, per l’economia».

Ci sono stati anche silenzi colpevoli? «Nel 2005, dai precedenti proprietari Miteni, è stata costruita una barriera idraulica motivandola al Genio civile come pozzi di prelievo acqua in relazione alla siccità del 2003. Ma chiunque abbia esperienza capisce che è fatta per intercettare la falda e capire le caratteristiche dell’acqua sottostante; la barriera è un investimento molto grosso. Poi nel 2009 arriva la nuova gestione; le aziende hanno l’obbligo di fare la caratterizzazione del terreno per capire cosa c’è sotto. Nel 2013 quando il Cnr fa lo studio, Miteni va a denunciare subito dopo. Io mi auguro che nessuno abbia voluto nascondere i fatti, però credo si dovesse intervenire prima».

E il Pubblico ha fatto tutto quello che doveva? «La Regione apprende nel 2013 del problema. Si fanno i biomonitoraggi, si scoprono i livelli elevati di Pfas. È passato tanto tempo, c’è stata una ridondanza di azioni e un rimpallo Governo-Regione che sicuramente non ha agevolato. Insomma, dal 2013 ad oggi si poteva fare sicuramente di più. Ad oggi avremmo dovuto aver già bonificato il sito e avere delle cure per i cittadini».

In che modo quest’inquinamento è un disastro anche per l’economia del territorio? «Si pensi all’agricoltura. Se qualcuno vieterà di usare l’acqua per irrigare, se negli alimenti verrà rilevata la presenza di Pfas e se qualcuno un giorno dirà che il limite deve essere pari allo zero, allora, il danno economico per l’agroalimentare veneto sarebbe enorme».

Quali sono li interventi urgenti? «Prima di tutto occorre garantire l’acqua pulita nelle case. Sono stati messi i filtri, ma essi hanno costi pazzeschi per cui occorre accelerare la realizzazione delle condotte sostitutive. Al 4 dicembre del 2016 ci dovevano essere i soldi pronti del governo, un anno e un mese dopo siamo ancora qui ad aspettarli, con un ritardo negli interventi strutturali. Mi sembra che ci sia chi fa campagna elettorale sulla salute delle persone. Altro intervento urgente è la bonifica del sito: l’azienda che secondo Arpav ha inquinato, ora fa ricorso perché non vuole la bonifica approfondita. Bisogna invece che, insieme all’azienda, venga attuata la bonifica e che ci sia la riconversione dell’impianto. Perché, da lì, la linea di produzione Pfas se ne deve andare. Un’azienda che ha causato pericolo per le acque se ne deve andare, lo prevede il piano di tutela. Questo non significa che Miteni deve chiudere, sia chiaro, ma che appunto deve riconvertirsi».

Ma la produzione e l’uso di Pfas continuano in Veneto? «Quella di Pfas a catena corta sì, sono ritenuti meno dannosi, anche se in realtà non ci sono molti studi a supporto. Tuttavia al depuratore di Trissino, dove scaricano diverse aziende, sono stati rinvenuti notevoli quantità di Pfas a catena lunga».

E sul fronte salute cosa va fatto? «Non sono un medico, il governo dice che la plasmaferesi era una sperimentazione e che come tale non poteva essere fatta. Bene, visto che abbiamo le strutture, che abbiamo la migliore sanità d’Italia, vengano definite soluzioni di cura».

Nel frattempo i costi sono tutti a carico del pubblico. «Mi auguro che la magistratura intervenga a breve e imputi ai responsabili il rimborso dei costi sostenuti dall’ente pubblico. L’Arpav ha individuato dove c’è lo scarico, da anni sono stati presentati esposti, ma siamo ancora fermi. I Pm stanno lavorando sodo, però mancano decisioni».

Trasmetterete la vostra relazione alle Procure impegnate nelle indagini? «Certo. Siamo sempre stati in contatto con la magistratura. Una volta individuati i colpevoli avremo la possibilità di imputare ad essi i costi, anche pesanti, finora sostenuti».

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Danni Ambientali

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