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Il monitoraggio sull’incidenza dei tumori tra le comunità che vivono nelle aree interessate dalla contaminazione da sostanze perfluoro alchiliche verrà esteso nel tempo. Lo hanno annunciato il 19 dicembre il direttore generale della Sanità del Veneto, Domenico Mantoan, e il responsabile del Registro tumori del Veneto, il professor Massimo Rugge, in occasione di un convegno tenutosi a Padova dal titolo “Divulgare e utilizzare l’epidemiologia dei tumori”. Oggetto dell’incontro era, appunto, l’importanza di divulgare nelle diverse forme, a diversi livelli e soggetti, le informazioni relative al cancro. Presente al convegno anche il giornalista Michele Mirabella.

E’ stato durante il summit che è emersa la questione Pfas, l’inquinamento della falda nel territorio della Bassa Padovana, del Vicentino e del Veronese, e le malattie correlate. Uno studio della Regione presentato lo scorso autunno ha evidenziato come i tumori non siano aumentati, ma addirittura diminuiti nelle aree contaminate, mentre risultano in crescita ile patologie cardiovascolari. Il professor Rugge ha spiegato come gli studi fatti siano assolutamente attendibili e che verranno estesi nel tempo per una tutela ancora maggiore. «Vigiliamo perché la solidità del dato garantisce la tranquillità della popolazione», ha sottolineato il medico.

Le conclusioni degli studi regionali, tuttavia, vengono contestate con dettagliate argomentazioni dall’Isde Veneto, la società dei medici per l’ambiente, che invece tratteggia un quadro molto più preoccupante circa le neoplasie nella zona inquinata. Di seguito, il documento integrale diffuso dall’Associazione.

«Nel comunicato stampa N° 1006 del 22/07/2016 della Regione Veneto si legge che: “sul piano oncologico ed epidemiologico, l’inquinamento da sostanze perfluoro alchiliche (PFAS) emerso nel 2013 in una vasta area del Veneto, ma in atto presumibilmente da almeno 20 anni, non ha portato al momento a rilevare un peggioramento del trend di salute dei cittadini nei territori maggiormente esposti”. Del tutto analoga la valutazione dei risultati dello studio presentato dal Registro Tumori il 28 ottobre, riguardante la popolazione dei 21 comuni definiti come esposti a PFAS: “In conclusione, tutte le diverse tipologie di analisi effettuate non documentano una maggiore incidenza di tumori maligni nelle popolazioni considerate, rispetto ai valori medi regionali” Comunicato nr. 1479-2016)”. Non condividiamo le conclusioni del SER e del RTV per i seguenti motivi. I risultati dello studio di mortalità 2007 – 2014 del Sistema Epidemiologico Regionale (SER), pur con i limiti dell’estensione temporale di soli otto anni, dimostrano un aumento di mortalità per alcune malattie non neoplastiche nelle zone contaminate: cardiopatie ischemiche sia negli uomini che nelle donne, rispettivamente +21% e +11%; malattie cerebrovascolari + 19% nei maschi; diabete mellito (+ 25%) e Alzheimer (+14%) nelle donne. Lo stesso studio del SER rileva inoltre nella popolazione dei 21 Comuni più inquinati, in entrambi i sessi, una prevalenza significativamente maggiore del riferimento regionale di dislipidemie e ipotiroidismo. Queste sono malattie la cui eziopatogenesi è legata anche ai meccanismi d’azione degli interferenti endocrini, categoria di sostanze chimiche cui appartengono i PFA».

«Lo studio SER – continua la nota – ha sostanzialmente confermato i risultati della precedente indagine ISDE – ENEA che, analizzando i dati di mortalità di un periodo molto più lungo, 1980-2009, aveva evidenziato un eccesso statisticamente significativo di mortalità in entrambi i sessi per ogni causa e per diabete mellito, infarto acuto del miocardio e malattie cerebrovascolari; nelle femmine, aveva rilevato anche un eccesso statisticamente significativo di mortalità per malattia di Alzheimer e cancro del rene. Non comprendiamo, quindi, come sia possibile, da una parte, affermare che “non si sia rilevato un peggioramento del trend di salute dei cittadini nei territori maggiormente esposti” e, dall’altra, attribuire a stili di vita l’eccesso di mortalità osservato, senza peraltro addurre alcuna prova a sostegno di tale affermazione che costituisce, allo stato attuale, una mera opinione personale dell’autore dello studio; è d’altronde ben difficile ipotizzare che proprio nelle aree contaminate le persone abbiano uno stile di vita significativamente peggiore delle popolazioni limitrofe».

«Probabilmente – si ipotizza – il trend non è aumentato perché lo stato della salute nei territori con l’acqua potabile e la catena alimentare contaminate per decenni dai PFAS è da sempre peggiore rispetto alle altre aree della regione e, in ogni caso, il SER non misura alcun trend. Questi risultati, tutt’altro che tranquillizzanti, imporrebbero, in ossequio al principio di precauzione sancito dalla normativa europea, l’adozione immediata di provvedimenti atti a: eliminare l’esposizione della popolazione ai PFAS, quali l’approvvigionamento alternativo di acqua potabile (ovviamente garantendo il rifornimento di acqua destinata al consumo umano non inquinata), la sospensione della produzione e commercializzazione di alimenti contaminati, e intraprendere, affidandoli ad esperti indipendenti, studi epidemiologici di tipo analitico. Entrambe le richieste sono state più volte avanzate da ISDE alle autorità regionali».

«Un aspetto della questione, per nulla chiaro ma veramente importante, riguarda poi la definizione dei comuni “esposti” – sottolinea, ancora, l’Isde –: mentre nel documento tecnico allegato alla delibera 1517/2015 la popolazione esposta (circa 270.000 soggetti) era stata individuata come residente nei comuni in cui si era verificato in rete o in pozzi privati almeno un superamento dei limiti di performance per PFOA, PFOS o altri PFAS (PFOA >500 ng/L, PFOS >30 ng/L, altri PFAS >500 ng/L), la nota 203887 del 24.05.2016 del Direttore Generale Area Sanità e Sociale individua 21 comuni sulla base della ricostruzione della filiera acquedottistica, per una popolazione di 127.000 soggetti. Nella lista dei comuni entrano così tra gli esposti Alonte e Asigliano, che nel 2013 non presentavano alcun superamento dei limiti, e ne escono molti altri che invece li avevano superati, come, ad esempio, Vicenza che aveva livelli altissimi nel luglio 2013 ( 1600 ng/L di PFOA, 80 di PFOS e 1800 di altri PFAS). E’ grave a nostro parere che non siano resi pubblici i criteri utilizzati per questa nuova definizione dei comuni esposti».

«Per quanto riguarda le malattie neoplastiche – aggiunge il documento – osserviamo che esiste un problema prioritario di affidabilità dei dati del Registro Tumori poiché i dati sicuramente certificati dalla IARC (Agenzia Internazionale di Ricerca sul Cancro – OMS) si fermano al 2006. E’ quindi indispensabile sapere se i dati presentati alle conferenze stampa sono stati sottoposti alla IARC, come aveva dichiarato il responsabile del registro, e se sono stati accreditati. Presentare i dati di un solo anno e relativi a una piccola popolazione è al di fuori di qualsiasi regola internazionale e nazionale dei registri e francamente dubitiamo sia stato fatto su dati validati dalla IARC. Esiste anche un problema di credibilità scientifica dei criteri utilizzati nel disegno dello studio sui tumori nella “zona rossa”. Infatti, fra tutte le molecole del gruppo PFAS, solo il PFOA è stato valutato dalla IARC come “possibile cancerogeno” per testicolo e rene. E dei 21 Comuni “esposti”, due, Alonte e Asigliano, nel 2103 non presentavano inquinamento superiore ai limiti stabiliti dall’ISS per nessuna categoria di PFAS; in altri tre (Boschi sant’Anna, Minerbe e Roveredo di Guà), i limiti erano superati solo dal PFOS».

«In definitiva, secondo i medici per l’ambiente «gli effetti cancerogeni dei PFAS sono stati quindi studiati su una popolazione in parte non esposta a sostanze classificate come cancerogene. Sorprendentemente, inoltre, per i 19 casi di cancro del testicolo identificati sono riportati i tassi di incidenza in ognuno dei 21 comuni, quando è ovvio che in almeno due municipalità non possono esserci casi di cancro testicolare. Inoltre, nell’analisi dell’ASL 5 (reperibile nel sito RTV), risulta che il tasso di incidenza del cancro al testicolo è decisamente più alto del riferimento regionale: 11.3 su 100.000 rispetto a 7.1. E nella popolazione maschile di circa 20.000 soggetti residenti nella zona sud dell’ASL 6 sono stati rilevati 4 casi, che portano a un tasso ancora più alto, di circa 20 su 100.000. Ci risulta problematico, pertanto, condividere in questa situazione la dichiarazione attribuita al prof. Rugge, di essere “confidente in questi dati fino alle estreme conseguenze” e le conclusioni identiche riportate in entrambi gli studi regionali: “da nessuna delle analisi effettuate è emersa alcuna evidenza di una maggiore incidenza di tumori a carico delle popolazioni esposte a PFAS, sia per le sedi oggetto (testicolo e reni) di particolare attenzione che per tutti i tumori”».

«Molte perplessità – conclude la nota – suscita infine, a nostro parere, la decisione della regione Veneto di finanziare con 100-150 milioni di euro l’anno per dieci anni, la cosiddetta presa incarico “di parte della popolazione esposta che verrà sottoposta annualmente, per i prossimi dieci anni a visite mediche periodiche ed analisi di laboratorio”. Premesso che i dettagli “della presa in carico” non sono stati finora pubblicati, la decisione di sottoporre oltre 100.000 persone ad analisi di laboratorio aspecifiche, senza contemporaneamente dosare i PFAS nel sangue dei partecipanti, non permetterà di stabilire eventuali correlazioni fra le patologie multifattoriali PFAS-associate né nel singolo caso né nell’intera popolazione studiata. Non si comprende perché “dalla presa in carico” della popolazione sarebbero esclusi i bambini sotto i 14 anni e gli adulti sopra i 65 anni, le donne gravide e i neonati, come già avvenuto per lo studio sul biomonitoraggio umano. Sembra quasi che, per le autorità regionali e statali, le fasce più suscettibili agli effetti tossici dei PFAS, non esistano o non siano meritevoli di attenzione. E quand’anche, fra dieci o più anni, fosse stabilita un’eventuale correlazione nei singoli individui fra patologie e livelli ematici di PFAS, come giustificheranno le autorità la decisione di aver lasciato ampie fasce della popolazione veneta esposte per un decennio a concentrazioni elevatissime di PFAS? A nostro avviso gli obiettivi dello studio regionale potrebbero ugualmente essere perseguiti con un’indagine condotta mediante intervista telefonica dei partecipanti da ripetere annualmente, con notevole risparmio di risorse economiche”.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Danni Ambientali

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